Oliver Stone: "Il mio film per aiutare gli americani. Ma loro non capiscono"

Il regista presenta "Snowden", che racconta la storia dell'agente che svelò i segreti della Cia

Oliver Stone: "Il mio film per aiutare gli americani. Ma loro non capiscono"

«Mi sento fico ad avere accesso ai nuovi sistemi di sicurezza», spiega al suo reclutatore Edward Snowden, l'ex-tecnico della Cia che nel 2013 svelò il Datagate, rivelando le attività di sorveglianza illegali degli Usa. E parte da questa motivazione il ventesimo film del tre volte premio Oscar Oliver Stone, Snowden (in sala dal 1° dicembre con Bim), che ieri, in anteprima italiana, ha movimentato il secondo giorno della Festa di Roma. E ha fatto conoscere l'inedita storia dell'ex-militare, neanche trentenne, considerato nemico pubblico dagli States, ma eroe da tutti coloro che vogliono vederci chiaro nei sistemi di intelligence mondiali. Non a caso, il giovane Ed, che ora vive a Mosca in esilio, risultava nella lista dei candidati al premio Nobel per la Pace, mentre Stone, newyorchese classe 1946, gli dedica un biopic teso come un thriller. Applausi a fine proiezione e frotte di ragazzini, all'uscita, seduti in terra a smanettare con i loro smartphone: rappresentazione plastica di quanto sia attuale il tema, perché ogni giorno della nostra vita è dentro un database.

«E' stata molto difficile la lavorazione del film: in due anni e mezzo mi sono incontrato nove volte con Snowden, che di persona non è molto espansivo. Come altri hacker che ho conosciuto. Però qui non si tratta di Pokemon, o di comprare cataloghi online, ma di una cosa molto più profonda», dice il regista di JFK, che a settant'anni, dopo aver raccontato le pagine più controverse della storia americana, appare stanco. Negli Usa il suo film «è stato accolto da alcuni bene, da altri malissimo», riporta lui, chiarendo come Hollywood gli abbia voltato le spalle. «In America, nessun finanziamento per me. Ho dovuto trovare i soldi in Francia e in Germania. Tra l'altro, le informazioni di Snowden erano complesse da capire e difficili da portare sul grande schermo, per rendere la storia cinematograficamente interessante», scandisce l'autore e produttore, che ha diretto alcuni tra i film più influenti degli Ottanta e dei Novanta. E, certo, per rendere sexy hackeraggi, sistemi informatici sofisticati e monotone esistenze da spia delle Agenzie per la Sicurezza Nazionale, come la NSA o l'FBI, ce ne vuole. «In realtà, in America il film non è stato compreso: da noi, chiunque riveli segreti militari è considerato un cattivo e ancora adesso la gente confonde Snowden con Assange. Di recente, una guardia mi ha chiesto cosa facessi. Un film su Snowden, ho risposto. E lui: Snowden? Si parla di neve, forse? (in inglese snow significa neve n.d.r.).

Non ci sta, Stone, l'eterno anti-americanista convinto; l'anima bella che, settantenne, scopre i guasti del Grande Fratello, ad accettare la sorveglianza di massa per proteggere la supremazia del suo Paese.Nel film, Snowden, interpretato da Joseph Gordon-Levitt, timido e nevrotico quanto basta per apparire il perfetto santino dei nerd, dopo l'11 settembre si arruola nella CIA per servire l'America. Ma quando scopre che l'agenzia per cui crea sistemi avanzati di sorveglianza, di fatto spia anche i cittadini americani, ledendo il loro diritto alla privacy, convoca i giornalisti del Guardian e indica loro l'Occhio del Governo. Ne nasce uno scandalo di dimensioni globali, che costringe Snowden a scappare. «Il film, quasi kafkiano, è il più realistico possibile: l'ha detto anche Snowden, dopo averlo visto e aver partecipato alla sceneggiatura. L'epilessia di cui soffre ha a che fare con la sua morte interiore. Quanto alle sue rivelazioni, perché l'ha fatto? Come l'ha fatto? Ricordiamoci che lui voleva combattere i terroristi, credeva a una sorveglianza mirata. Ma perché, poi, l'America ha deciso di installare meccanismi di sorveglianza di massa?», incalza Stone, dichiarandosi disilluso quanto Snowden. «Obama avrebbe potuto prendere provvedimenti e non l'ha fatto. Anch'io, come Snowden, sono cresciuto da conservatore. All'epoca del Vietnam, ero troppo giovane per capire. Ma poi, negli anni Ottanta, con Reagan ho visto che gli Stati Uniti facevano, in America Centrale, le stesse cose del Vietnam. In realtà, è in atto una cyber-guerra, che serve a far cambiare i regimi, promuovendo la propria causa», s'infervora l'autore di Salvador, per il quale «Trump non ce la farà, ma l'alternativa della Clinton rappresenta la mentalità americana o con noi, o contro di noi.

Non c'è democrazia, tra l'uno e l'altra». E come sfuggire al controllo? «Esistono programmi di crittografia. Molte società che operano in Internet erano complici dei governi e adesso, per recuperare i clienti persi, stanno molto più attente».

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