«Sono un figlio: di mio padre e mia madre. Ma anche del pubblico. E degli italiani, che mi sono cambiati sotto gli occhi negli anni. Ed è per questo che adoro camminare per la strada: mi fa sentire libero e mi fa incontrare le persone. Mi piace imbattermi in loro, e capire cosa gli si muove dentro». Rosalino Cellamare in arte Ron, ad agosto prossimo settant'anni di cui cinquantatré buoni in carriera, è un cantautore sempre, anche quando deve raccontare il titolo del suo nuovo album Sono un figlio (Sony Music), in uscita oggi: la poesia gli cammina appresso e aspetta di farsi prendere per mano da lui. Con i suoi tredici brani inediti (ma uno, Quel fuoco, è una cover di Finneas O'Connell), Sono un figlio racconta un Ron che rimane fedele alla materia prima con cui ha sempre lavorato: la canzone. «E di questi tempi dice - di canzoni non se ne vedono troppe in giro».
Non le piace la scena musicale attuale?
«In Italia è esploso un mondo rap dove alcuni autori sono bravi a raccontare, ma è tutto nei testi. Mancano i brani. Dico la verità: non sento nulla che mi emozioni».
Come si scrive una canzone?
«Posso dire come faccio io: parto dalla musica. Arrivo al testo solo dopo aver dato a quella musica i suoni giusti. Prima vesto la musica nel modo più completo, e solo dopo penso al testo».
Questo disco, però è pieno di racconti.
«Certo, io resto un cantautore, le storie sono per me importanti».
Una di queste ci porta dritti ai suoi genitori: ne parla per la prima volta.
«In Sono un figlio parlo di papà Savino e mamma Maria e del loro amore. La loro storia partì con incontro imprevisto in piena guerra. Papà, inseguito dai tedeschi, scavalca un cancello e, stremato dalla fatica, si addormenta in una cantina. Mamma scende in quella cantina la mattina dopo e vede mio padre. Lo nascosero per tre mesi in casa».
Che tipo di figlio è stato?
«Con una doppia anima: apparentemente dolce, però facevo anche cose allucinanti, tipo buttare un compagno di giochi in una cisterna. Un po' teppista, dunque. Però sono anche stato bullizzato».
Quando nasce l'idea di questo album?
«In piena pandemia. Questo Covid ci ha fatto tanto male ma ci ha costretti a pensare: a cosa abbiamo fatto e a cosa vogliamo fare di noi. In quei giorni, a casa, sulle prime passavo vicino a pianoforte e chitarra e scappavo. Poi, lentamente, mi si è riacceso tutto. E mi sono messo a scrivere».
Anche dei gatti di casa.
Il brano I gatti, scritto con un giovane e compositore pieno di talento, Giulio Wilson, chiude l'album. Ho realizzato un video che è una dedica d'amore: i gatti sono creature speciali, extraterrestri».
In Questo vento duetta con Leo Gassmann: com'è nata la collaborazione?
«La mia carriera è costellata di collaborazioni. Non ho mai pensato, poi, che in un disco le canzoni debbano per forza essere tutte mie. Il brano cui sono più legato è Una città per cantare, una cover di Danny O' Keefe. Questo approccio ce l'ho anche all'interno delle mie canzoni: la strofa cantata da Leo in Questo vento è tutta sua. Leo mi colpì a Sanremo, mi dissi: caspita che bravo. Un giorno venne nel mio studio a Garlasco e mi fece sentire cose sue, ottime. Gli chiesi: ma da che pianeta vieni? Da un'ottima famiglia di certo, dove si respira cultura».
Ecco, Sanremo:
otto festival per Ron. Ci tornerebbe?«Da Sanremo sono tornato vincitore ma anche depresso. Oggi non ci penso. Dovrebbe essere il festival della canzone italiana, ma ci vedo solo personaggi. Le canzoni non ci sono».
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