Non credo ci sia altra letteratura al mondo, oltre a quella russa, il cui rapporto con la vita sia così stretto, così spiritualmente incendiario. Nessun'altra letteratura sente così visceralmente lo smarrimento dell'uomo nel mondo - uno smarrimento che però gli fa percepire la propria terra come una Madre, perché quella terra è una promessa (la promessa), un paradiso, ma inguaribilmente ferito. Nessun'altra letteratura, come quella russa, vive la parola come l'investitura di una profezia, come un'annunciazione, una chiamata, la necessità di chi si sacrifica per un desiderio di santità. Credo sia per questo che Davide Brullo, in Italia un autore assolutamente atipico, fuori da ogni canone possibile, vi sia legato tanto intimamente.
Pubblicando ora Un alfabeto nella neve. Boris Pasternak e Marina Cvetaeva: il carteggio ritrovato (Castelvecchi, pagg. 156, euro 12,50) vuole porre un sigillo alla sua opera per mezzo di una falsificazione. Del resto, non è la prima volta. All'inizio dell'anno ha pubblicato l'edizione critica di una lettera apocrifa di San Paolo Apostolo a San Pietro; qualche anno fa il soggetto di un film mai compiuto di Bergman sulla vita sessuale di Franz Kafka. Tutte sonore bugie. Falsi in cui però si metteva in gioco totalmente, in cui lottava per la verità - i suoi modelli sono Fuoco fatuo di Nabokov e Il quinto evangelio di Mario Pomilio; come dire: il comico ghigno del falsario (il falsario che rifiuta il tragico per una forma di pura vitalità, il quale sa che mettere in scena la vita non può che essere una commedia) e la messa in discussione della propria fede (che è certo un modo di credere, ovvero quello di non dare nulla per assodato, o già risolto, vivere la propria fede come un eterno conflitto).
È quindi bene dirlo subito. Il carteggio tra i due poeti russi che Brullo - che del libro vuole essere il «curatore» e non l'«autore» - dice di aver recuperato non è che un nuovo apocrifo da lui inventato. Pasternak e Cvetaeva sono la penna stessa di Brullo; è lui a dargli voce. Ma non lo fa parlandone o affrontandoli criticamente, bensì proprio firmandosi col loro nome e cognome. Brullo li interpreta impossessandosi delle loro vite e soprattutto delle loro parole. Ma non si deve prendere questa operazione come una prova di vanità, come un trionfo dell'io. È esattamente il contrario. A volte si ha la necessità di scomparire prima ancora che agli occhi degli altri, da noi stessi. È necessario dimenticare chi siamo per ritrovarci domani sconosciuti e nuovi. Ciò che già sappiamo di noi non conta niente. Non ha alcun valore nel mondo. Dobbiamo bruciare per conoscerci ancora. Il curatore del carteggio a un certo punto scrive: «Ogni ritorno è un indizio di morte. Si ha voglia di incontrare chi abbiamo amato molti anni prima per capire qualcosa di noi che ora è perduto. Per questo, ogni ritorno è una sconfitta - le origini esistono perché abbiamo la forza, confusa e viziata, di allontanarcene. Quando non si ha più la costanza di penetrare lo sconosciuto per tornare sui propri passi, per abitare nella casa bruciata dalla memoria, si è morti (...). La poesia di Pasternak non indugia nella malinconia, non indaga il passato: azzera i volti, percorre il rischio di dimenticare, di amare l'oblio, di amare come se i secoli fossero una sciocchezza. Per questo Pasternak sembra massiccio come una giungla, ma è impalpabile, voce antica su città di vento, che vanno. Come mio padre».
La dialettica architettata da Brullo nasconde un desiderio e un'ossessione. Se Marina Cvetaeva sogna, Boris Pasternak è l'oggetto del sogno; se Marina scrive poesie, Boris è la poesia. Credo che al fondo di queste pagine Brullo non desideri altro che scomparire per divenire pura parola e di conseguenza smettere di sognare e di scrivere per poter essere in un tutto - in quel tutto in cui può ritrovare anche suo padre, quel padre che ha scelto di togliersi la vita e che gli sembra sia accomunato dallo stesso spirito di Pasternak, un dio «impalpabile» («Avevo bisogno di Pasternak per riconciliarmi con mio padre, per ricondurlo a me»). Ma se suo padre è la poesia - l'oblio dentro il tutto -, Brullo è colui che ancora è costretto a cantarla - è, sostanzialmente, la voce di Marina. Ma l'ossessione, allora, quale ruolo ha? L'ossessione, in Brullo, è una profezia. Egli è convinto che la parola venga prima della cosa, che la cosa sia annunciata dalla parola, che la cosa la parola assedia prima ancora di essere pensata («assediare» è esattamente l'origine - l'etimologia - dell'ossessione): «la parola, a mio avviso, non testimonia ciò che c'è; lo crea, lo fa esistere».
Ma quell'ossessione, se è legata a un desiderio, è perché la cosa non è altro che la ferita primigenia, la terra promessa, il paradiso falcidiato dal dolore: il suicidio di un padre che equivale al suicidio di Dio; un suicidio a cui vuole porre rimedio, o riscattare, non per mezzo dell'arte, ma rinunciando a sé per divenire arte egli stesso.
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