Giovanni Gastel ha portato al MAXXI di Roma la gente che gli piace. "The People I Like" è infatti il titolo della mostra, curata da Uberto Frigerio, che fino al 22 novembre ci racconterà delle persone che hanno "toccato l'anima" del fotografo.
Il ritratto, parte fondamentale del quarantennale percorso artistico di Gastel, si rivela qui opera artistica di eccellenza, ma soprattutto rappresenta per l'autore una necessità. Come tutto l'atto del fotografare, in effetti: ma ancor di più, perché, come dice l'artista, "rendere eterno un incontro tra due anime mi incanta e mi fa sentire parte di un tutto".
E pensare che la sua famiglia, all'inizio, non apprezzava particolarmente la sua scelta di diventare fotografo. Forse perché erano altri tempi - negli anni settanta i fotografi di still life o di moda non erano le star che poi seppero diventare -; o forse perché la sua non era propriamente una famiglia ordinaria: Gastel è infatti figlio di Nane Visconti di Modrone, la sorella del regista Luchino Visconti e nipote di Carlo Erba: una famiglia che simboleggia la convergenza tra l'antica nobiltà milanese e la pragmaticità dell'alta borghesia industriale lombarda, che probabilmente guardava con occhi sospetti quella che riteneva un'attività che - parole del padre di Gastel - lo avrebbe portato a "fare fototessere per tutta la vita".
Oggi, queste "fototessere", che raffigurano Barack Obama, Marco Pannella, Vasco Rossi, Andrea Bocelli e altri duecento personaggi tra musicisti, politici, giornalisti, artisti, chef, attori sono esposte in questa personale, e ci raccontano un inedito aspetto di sé che Gastel - e soltanto lui - ha saputo rivelare.
Abbiamo incontrato il fotografo per farci raccontare del suo rapporto con i ritratti: intesi come forma espressiva, ma anche come participio passato.
Se vado sul tuo sito trovo le bellissime foto di Elle Decor, still life e campagne per marchi prestigiosissimi... e i tuoi Portraits. Dei quali sei certamente maestro, ma, lasciamelo dire, sei innanzitutto maestro di versatilità...
È stato Germano Celant a liberarmi. In occasione della nostra prima intervista, alla mia mostra della Triennale di Milano nel 1997, mi disse: “Smettila di dire che sei un fotografo di moda, di still life! Tu sei un fotografo; poi fotograferai un po’ quel c.... che ti pare!” Beh, io ho seguito il suo consiglio.
"The People I Like": qual è il prerequisito per piacerti?
Prima di tutto il darmi la possibilità di farsi leggere “dentro”, al di là del personaggio. In un centoventicinquesimo di secondo tra me e chi ritraggo deve intercorrere una reciproca seduzione che ci metta in relazione profonda.
Ritrarresti chiunque ti piaccia?
Certamente ritraggo con più gioia le persone che in qualche misura sento già far parte (spesso attraverso le loro opere) del mio mondo interiore.
E non ritrarresti mai chi non ti piace?
Assolutamente no, perché non potrebbe nascere quell’istante di seduzione che è alla base di un ritratto riuscito, che è figlio del soggetto e mio: e per creare insieme bisogna piacersi.
Se non ci si piace, difficilmente la persona che è davanti all’obiettivo si aprirà a una lettura più profonda, e tutto ciò che io riuscirei a vedere sarebbe il fondale nel mirino della mia macchina. E non si tratta di una visione poetica: è esattamente così.
Cosa cerchi nel ritrarre una persona? La sua verità, o la tua percezione della persona che hai di fronte?
Il mio tentativo è sempre quello di sciogliere la persona che deve posare: lo faccio cercando di usare tutto il mio charme, ridendo molto, scherzando. Questo mi permette di dare una “lettura” del soggetto che è assolutamente mia. Io non sono uno specchio: io sono un filtro, la persona che fotografo viene filtrata da ciò che io sono, dalla mia cultura, dalla mia vita; io fisso quello che esce da questo passaggio attraverso di me in un fotogramma.
Qual è il segreto per riuscire a fare questo?
Cercare di arrivare al momento del click in un clima di grande leggerezza, scattare velocemente e spesso farlo quando il soggetto pensa che siano solo prove di luce.
La tua scelta insistita di rinunciare a sfondi, a contorni o accessori di qualsiasi tipo aiuta a far emergere le caratteristiche che cerchi?
Devo dire che più avanzo nella professione e più credo che l’opera vada spogliata di ogni cosa superflua. Ridurre le componenti sceniche - ma anche tecniche - ripulisce il risultato finale rendendolo essenziale e quindi più incisivo.
Quali sono, per chi fa ritratti fotografici, quelle peculiarità del ritratto pittorico di cui si sente la mancanza? E viceversa?
La mia fotografia deve moltissimo ai miei studi profondi delle arti figurative, ma poiché i mezzi tecnici contengono un’estetica io trasferisco tutto ciò che ho appreso attraverso il linguaggio insito nel mezzo che sto usando.
Sono passati ventitré anni dalla tua prima Personale, alla Triennale di Milano, curata da Germano Celant. Dall'esplosione di colore del catalogo di quella mostra alla desaturazione e monocromia di questi ritratti. Cosa è cambiato in tutto questo tempo, oltre alla recente perdita di una figura gigantesca come quella di Celant?
Il graduale passaggio dal “tutto colore” degli anni ottanta alla decolorazione, fino all’uso del bianco e nero è dipeso, penso, dall’esaurirsi di un certo ottimismo pop degli anni 80/90 e dall’arrivo di un senso più profondo e meno giovanile di analisi del reale e del ricordo. Emblematica in questo senso fu una mia mostra del 2011, “Cose Viste”, che fece sì che io rivedessi le foto scattate a latere del mio lavoro di moda (soprattutto landscapes) cercando di ricondurle ai colori della memoria, da cui gli scatti super colorati mi sembravano lontanissimi. Riguardo a Germano, lui in tutti questi anni è stato vicinissimo alla mia evoluzione artistica e ai notevoli mutamenti della mia fotografia. La sua mancanza è già un immenso vuoto nella mia anima, sia creativa che affettiva.
Scegli tre ritratti della mostra, e raccontami perché hai scelto proprio quelli.
Germano Celant, cui devo moltissimo e che mi è stato amico e mentore per una vita. Un uomo che ho profondamente amato ed ammirato.
Ettore Sottsass, di cui ho avuto il privilegio di essere amico e attento discepolo per 15 anni e che mi ha chiesto di fissare con la mia fotocamera l’immagine del suo ultimo anno. Barack Obama, perché sono riuscito a cogliere nel suo straordinario sorriso la lunga e dolorosissima storia del popolo nero fino alla liberazione della sua presidenza degli Stati Uniti d’America.
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