È morto a Parigi il regista inglkese Peter Brook. Aveva 97 anni. Si era stabilito in Francia dal 1974. È stato uno dei più importanti esponenti del teatro di prosa, capace di sperimentare e di inventare nuovi stili. Nato in Gran Bretagna, visse a lungo in Francia, alla guida del suo teatro parigino Les Bouffes du Nord.
Da qualche anno una tragedia silenziosa si sta consumando, in mezzo a quelle più rumorose. Una generazione di grandi maestri se ne sta andando, e la domanda più urgente che lascia dietro di sé non riguarda tanto l'elenco delle opere ma quel che rimane del loro metodo, ossia della luce che, con il loro lavoro, hanno cercato di tenere accesa.
La domanda rinasce, fortissima, ora che se ne è andato Peter Brook (era nato nel 1925), il regista teatrale anglo-francese che ha attraversato la storia dell'Europa per quasi otto decadi. Il segno che Peter Brook ha lasciato sul teatro è così grande che definirlo «il maggior regista teatrale della nostra epoca» è sciocco e vano. Vano inserire uomini come lui - o come il mai abbastanza compianto Luca Ronconi - in un'ideale classifica: è un'offesa soprattutto a noi stessi.
Sono certo che lui preferirebbe una definizione minimalista: uomo di teatro, uomo di cinema. La sua grandezza è tutta qui. Il compito del regista, ripeteva, non è di sedere al centro dello spettacolo imponendo la propria visione (che è stato il male mortale del teatro degli ultimi quarant'anni), ma di fare in modo che qualcosa accada.
Che «qualcosa accada». L'arte è questa semplicità. Così è il Teatro, così il Cinema, così la Musica e la Poesia. Ma com'è duro, com'è difficile raggiungere questo aleph una volta, poi un'altra volta, e un'altra volta ancora...
Le sue prime opere risalgono al 1943, nel cuore dell'orrore. Lavorò anche per l'esercito inglese. Sospetto che la guerra abbia segnato il suo pensiero come una specie di imprinting. Da allora Peter Brook ha attraversato teatro e cinema con una serie di opere straordinarie, talune legate al repertorio classico, altre di ricerca pura - sempre che questa distinzione abbia un senso -. Shakespeare, Artaud, Weiss, Golding (memorabile il suo Signore delle mosche, del '63) sono pietre miliari lungo un cammino di semplicità e chiarezza.
Con pazienza, aspettando, mettendo accanto pietra a pietra, nel 1985 Brook giunge al capolavoro più acclamato: il Mahabhàrata, tratto dal grande poema epico indù e dai suoi oltre centomila versi. Il Mahabhàrata, disse Brook, è per gli indiani come la Bibbia più Shakespeare. E racconta una storia di guerra tra due famiglie imparentate, in cui la rivalità, l'ambizione e la violenza trascinano nel loro gorgo uomini pur giusti e saggi. Lo spettacolo fu presentato in una località impervia presso Avignone, per raggiungere la quale occorreva percorrere un tratto di fiume e poi un cammino a piedi. Lì, in una cava di pietra, ebbe il suo battesimo uno spettacolo che, negli anni successivi, avrebbe attraversato - prima in lingua francese e poi in inglese - tutto il mondo.
La guerra, incontrata in giovane età, sembrò così svolgere il suo seme in quest'opera che chi scrive ha potuto vedere solo attraverso filmati e poi nel film che lo stesso Brook realizzò più tardi. La guerra non è solo il banco di prova delle virtù umane, ma un punto interrogativo che non esclude l'annullamento di ogni virtù. Il Teatro ha a che fare con la guerra proprio per l'imprevedibilità di quello che fa accadere. Nessuno - ce lo insegnano i greci - dovrebbe mai essere preparato a ciò che vedrà a teatro. Il suo sistema di valori dovrà vacillare: solo allora potrà dire di essere stato a teatro.
Di tutta questa meditazione, cominciata con Artaud cui sono succeduti tanti grandi maestri, cosa resta? La provocazione dell'arte si è ormai ridotta perlopiù a una questione di contenuti, e i contenuti sono quelli che si sanno: sessualità, eutanasia, denuncia di soprusi. Niente da eccepire. Ma ridurre lo scandalo a una semplice questione di contenuti non cancella un atto di malafede e di chiusura: l'altro è interessante solo se, in fondo, la pensa come me.
All'inizio del nuovo secolo ebbi la fortuna di assistere più volte a un Amleto di Brook. Durava un'ora scarsa e sulla scena c'erano tre attori, di cui uno addetto soprattutto alle musiche. Non c'era Gertrude, non c'era Ofelia, mancavano insomma tre quarti del testo e dei personaggi. Eppure è e resta l'Amleto più bello che io abbia mai visto. Il dramma del Principe di Danimarca si appoggiava al racconto che a sua volta poggiava sulle mani di due grandi narratori, di cui uno africano, che senza alcuna forzatura interpretativa trasferiva Amleto nelle aride pianure subsahariane, ne resuscitava la voce antichissima generando in noi spettatori pensieri nuovi. D'un tratto l'illusione di vivere nel più solido, ricco e comodo dei mondi possibili si sgretolava, la nostra vita con tutte le sue opinioni e persuasioni era una casa di carte. Brook metteva l'antichità immemorabile del Teatro di fronte alla brevità del presente, senza apparente provocazione. Si usciva da teatro non offesi, non risentiti, ma rimpiccioliti. Che è molto di più.
Penso a uomini come lui, che hanno potuto realizzare opere straordinarie grazie anche alla stima che le istituzioni nutrivano per loro. Spettacoli di enorme impatto, ambiziosi, spericolati e insieme pieni di saggezza, realizzati grazie anche a un impegno economico non sempre ripagato dagli incassi. Perché un grande artista venga al mondo ci vuole chi crede in lui e rischia per lui. Così è successo a Peter Brook. Il genio non si afferma da sé, anche perché il genio vuole tempo, vuole futuro.
È più facile investire sul qui-e-ora, su fenomeni emergenti, provocazioni spettacolari e vuote, su quello che «va» al momento.Non è solo una questione di disponibilità economiche, ma di disponibilità al rischio. Per questo mi chiedo: cosa resterà di questi grandi maestri? Cosa resta, oggi?
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