Pier delle Vigne, traditore o innocente. L'"ispettore" Dadati risolve l'enigma...

Il mistero, tramandato da Dante, in un libro ambientato nel XIII secolo

Pier delle Vigne, traditore o innocente. L'"ispettore" Dadati risolve l'enigma...

«Ogni pena deve essere sopportata con mansuetudine, se meritata; la pena ingiusta, invece, provoca solo sofferenza». Queste parole, che Federico II scaglia per bocca del suo logoteta Pietro della Vigna contro Papa Gregorio, suo acerrimo rivale, in realtà anni dopo l'imperatore svevo avrebbe potuto rivolgerle contro lo stesso Pietro della Vigna. Il suo più fedele consigliere lo ha tradito, o così pare, e Dante nel tredicesimo canto dell'Inferno lo colloca nel girone dei suicidi trasformato in arbusto rinsecchito. Eppure Pietro della Vigna, meglio noto come Pier delle Vigne, non accetterà con mansuetudine la punizione comminatagli dal suo Signore e, presa la rincorsa, si fracasserà la testa contro la facciata del Duomo di Pisa, città nella quale era stato esiliato.

Siamo nella prima metà del XIII secolo. Federico, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero si dibatte da anni tra scomuniche e focolai di ribellione all'interno dei suoi estesi domini, non ultima quella del figlio in Germania. Qualche anno prima è riuscito a sventare per miracolo un tentativo di avvelenamento da parte del suo medico personale. Su Pier delle Vigne sono caduti sospetti di complicità, ma il cancelliere dell'imperatore ne è uscito indenne.

Quando nel 1248 l'imperatore subisce una disastrosa sconfitta a opera dei cittadini di Parma, da lui posta sotto assedio per mesi, ancora una volta Pier delle Vigne è al centro dei sospetti, con l'accusa infamante di aver passato informazioni al nemico. Questa volta però l'imperatore non avrà pietà e lo farà arrestare a Cremona e condannare all'accecamento per mezzo di un ferro rovente. Ma non tutto è chiaro. Pietro ha veramente tradito? O è stato calunniato? Molti sono i suoi detrattori a corte. Ma sarebbe bastata un'accusa generica per farlo condannare? Le fonti storiche sono lacunose. Lo stesso Boccaccio, che in qualità di commentatore di Dante si è occupato della vicenda, non è riuscito a far luce. Secoli dopo (siamo ai giorni nostri), Dario Arata, ricercatore universitario e attento studioso di Boccaccio e Dante, si mette in testa di risolvere il mistero una volta per tutte, con l'aiuto della propria fidanzata.

Nella pietra e nel sangue (Baldini e Castoldi, pp. 287, euro 19), Gabriele Dadati, specialista di minuziose ricostruzioni storiche in forma di romanzo, già autore del bellissimo L'ultima notte di Antonio Canova, ci conduce per mano attraverso questa intricata vicenda promettendo di non lasciarci insoddisfatti. Dario analizza tutti i documenti disponibili, passa al vaglio ogni ipotesi, si reca in Francia per un incontro che potrebbe risultare risolutivo. Ma alla fine sarà una inattesa apparizione a dipanare il mistero: sarà infatti uno dei protagonisti di quelle remote vicende a riemergere nebulosamente dal passato per la più incredibile delle rivelazioni. Con la consueta grazia stilistica, Dadati ci regala un romanzo dei più avvincenti, che tocca il suo culmine nelle cruente scene di guerra magistralmente narrate e nelle immagini volte a rendere la tensione, anche simbolica, dei fatti: «In cielo comparve un grande stormo che volteggiava compatto nella luce ambrata che precede il tramonto. (...) Infine venne spaccato in due da un falcone che proveniva da Santa Giustina e che, volando in senso contrario allo stormo, entrò nel suo ventre. Allora appunto lo stormo si divise e da uno che era ne nacquero due, che presero il cielo in direzioni opposte, volando il primo verso Oriente e il secondo verso Occidente, fino a scomparire alla vista.

A tutti fu chiaro il senso di quel prodigio, che stava a dire di come il Creato fosse stato spaccato in due. E quella cosa era contro natura e contro Dio». Da una parte l'Impero, dall'altra il Papato. Ancora una volta un Occidente cristiano debole e diviso, a tutto vantaggio dei suoi molti nemici.

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