Scendere in Arno all'alba per lavarsi le croste della scabbia, assistito da una donna che dalla riva porge il lenitivo olio di ortica: Pupi Avati è più noto come regista che come scrittore, ma la suggestione che emana il realismo delle pagine di L'alta fantasia (Solferino, pagg. 176, euro 16,50) rasenta il visionario. L'uomo che si dedica alle abluzioni nel fiume dei poeti è Giovanni Boccaccio, in partenza per le Romagne. Ha passato l'esistenza a studiare, celebrare, riprodurre l'opera di un Dante ormai scomparso, recuperato nei ricordi di chi l'ha incontrato. Stavolta la missione consente di prendere due piccioni con una fava: raggiungere la figlia del poeta in un convento e consegnarle alcune monete d'oro con le quali Firenze, pentita della condanna all'esilio, vorrebbe stemperare il senso di colpa. Ma è anche un pretesto per intervistare la figlia del genio della Commedia, un'occasione che non capita tutti i giorni.
A condurre il carro sui tornanti dell'Appennino è un barrocciaio che anni addietro ha perduto il mento per una rasoiata ricevuta durante l'inseguimento forsennato del Duca d'Atene. Boccaccio gli racconta tutto del suo idolo e, come accade a ogni fan che si rispetti, l'esito dell'ossessione è l'invasamento: con un colpo di teatro saltiamo nella testa di Dante, per cui quello che sembrava un romanzo su Boccaccio si rivela un romanzo su Dante o almeno sul modo in cui Boccaccio lo ha immaginato. Assistiamo alla morte della madre dell'autore della Vita nova, narrata con straordinaria efficacia, e alla vendita di quelli che oggi chiameremmo i suoi effetti personali, comprese le babbucce acquistate dalla seconda moglie di Alighiero, già incinta; lo seguiamo nella battaglia di Campaldino combattere sotto la protezione di Cavalcanti; e figuratevi se Avati si lascia sfuggire l'incontro con la figlia di Folco Portinari, il suo matrimonio con un uomo volgare, la sua morte a venticinque anni: insomma il romanzo di Beatrice.
Senza anacronismi, nemmeno psicologici, e con un rispetto della verità storica fortificato dalla schiera di insigni dantisti il cui nome compare nella pagina dei ringraziamenti, Avati trascina il lettore al centro di un
mondo che non potrebbe essere più remoto, dimostrando con i fatti che probabilmente aveva ragione Sainte-Beuve contro Proust: per entrare nei paradisi della letteratura bisogna passare attraverso la vita dei grandi autori.
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