Viaggiatore nato fin dalla più tenera età, eterno esiliato in bilico fra Europa e America, Henry James trovò in Italia e soprattutto a Roma quella sintesi del bello che perseguì tutta la vita nei suoi romanzi e nei suoi scritti. Nato a New York nel 1843, a sei mesi aveva già attraversato l'Atlantico con i genitori, per approdare in Europa, a Parigi e a Londra. Più tardi il padre, eminente teologo e filosofo, non soddisfatto della piega materialistica della scuola americana, come spiegò a Ralph Waldo Emerson, decise di dare ai suoi figli un'educazione più ampia e più europea e li portò a studiare nelle scuole di Ginevra, Londra, Parigi e Bonn e a intermittenza con tutori privati. Tornato in America, a dispetto dei desideri del padre e del fratello maggiore, il filosofo William, che volevano si dedicasse allo studio e ai rigori della filosofia tedesca, Henry James scelse di essere libero di creare, di scrivere per scrivere, la scrittura come arte.
A 26 anni, la carriera letteraria al suo debutto con brevi racconti e recensioni di libri per riviste quotate quali The Atlantic, American Review e The Nation, la sua ambizione era vasta, insondabile la fiducia nelle proprie abilità, e inestinguibile l'interesse per l'Europa. Nel 1869 tornò da solo in Inghilterra, Francia e Svizzera, questa volta attraversando le Alpi a piedi per scendere in Italia, un Paese e una cultura ancora sconosciuti - i genitori non vi si erano mai avventurati. In uno stato di «quasi estasi», visita Milano, Verona, Padova, Venezia, Pisa, Napoli, Genova, Firenze, Roma. E scopre «il lusso di amare l'Italia», il Paese che più della Francia (dove frequentò Zola, Maupassant, Turgenev) e dell'Inghilterra (dove si trasferirà definitivamente nel 1876) avrebbe maggiormente influenzato la sua straordinaria produzione letteraria.
Fiumi di lettere inviate a casa documentano il viaggio e il suo crescente entusiasmo. Al suo arrivo nella città eterna, il 30 ottobre 1896 la sua passione esplode in una lettera al fratello William: «Finalmente - per la prima volta - mi sento vivo! Roma supera ogni immaginazione. Fa sembrare Venezia, Firenze, Oxford, Londra, piccole città di cartapesta. Ho camminato per le strade in una febbre di gioia». Incantato, come dice, dalla «generosità dei gesti italiani», coglie in due righe la magia della città, «la mescolanza di nuovo e di antico, tutto dominato dalla presenza di un'imponente architettura, i fannulloni e gli oziosi sotto il cielo benigno che guarda le pietre calde di sole».
Quando ritorna in America l'anno dopo, come ricorda il suo maggiore biografo, Leon Edel, nell'estate del 1870 James convince la rivista The Nation ad accettare dalla sua penna una serie di articoli di viaggio, immagini degli Stati Uniti ma soprattutto scritti dall'Europa, per sottolineare nel contesto americano l'importanza di una piena consapevolezza dell'esperienza europea. E così fu, numerosi articoli che finiranno poi raccolti in Transatlantic Sketches, in A Passionate Pilgrim, osservazioni acute durante un lento e colto peregrinare, senza che le tribolazioni della politica, della guerra, della rivoluzione disturbino se non di striscio il suo viaggiare per piacere, con lo scopo di prolungarne il piacere scrivendone. E di guidare il visitatore, con frasi deliberatamente lunghe e divaganti, splendidamente dettagliate, lungo le curve di una strada di campagna, nella salita verso un castello in rovina, nella pace delle locande rurali o nel trambusto di un grand hotel. Perché per lo scrittore «Andare alla ricerca di un obiettivo più o meno teneramente sognato - trovarne la strada, lentamente, vedere se alla fine è una chiesa o un castello, la cima di una torre che spunta sopra gli olmi o le betulle - affrettarsi e poi fermarsi per tirare quel primo lungo respiro che è il compromesso fra così tante sensazioni - questo è il piacere che resta ancora al turista anche dopo che il riverbero della fotografia ha dissolto tanti dei dolci misteri del viaggio».
Certamente furono le intelligenti e intensamente vissute esperienze di viaggio a incoraggiare Henry James a coltivare le virtù del realismo letterario che trasferirà nei suoi romanzi. E a demolire quelle impressioni romanticizzate tanto care «agli ingenui all'estero», per dirla con il contemporaneo Mark Twain, che la pensava come lui. Del resto, proprio diffidando di quella infausta tendenza americana, James nel 1872 osservava in una lettera allo scrittore Charles Eliot Norton, suo amico: «È un destino complesso essere americano, una delle responsabilità che comporta è combattere contro una superstiziosa valutazione dell'Europa». Di qui dunque gli articoli, i saggi e i taccuini di appunti di quattro decenni, fondamentali per i suoi romanzi, che più tardi avrebbe dato alle stampe, come la bella raccolta Ore italiane pubblicata nel 1909 con le illustrazioni di Joseph Pennell. L'anno scorso, in occasione del centenario della morte dello scrittore la Nation Books di New York ha pubblicato una smagliante selezione di scritti di viaggio fra i meno noti con il titolo Travels with Henry James, un libro incantevole che batte tutti i Baedeker del mondo.
Qui troviamo le impressioni dello scrittore nel 1873 quando, camminando per il Corso scopre Roma fuori stagione, in maggio, quando la massa dei visitatori invernali è partita e la città torna in mano agli italiani, «una cosa molto piacevole, sembra ci sia più spazio, morale, fisico, estetico». Nulla sfugge al suo occhio attento e affettuoso, «l'indole romana è sana e felice», scrive, «il sorriso di Roma, come io chiamo questa atmosfera, avvolge chi passeggia senza pensieri e si abbandona a prendere le cose come vengono». Di tutte le ville romane frequentate assiduamente, Villa Borghese fuori stagione lo attrae particolarmente: «non è mai affollata, si può sempre trovare riparo dal vortice delle carrozze in cento angoli silenziosi». Come lo attrae la campagna romana, dove fare passeggiate senza fine e lunghe cavalcate. Se gli articoli sono descrittivi, gli appunti di James consegnati ai diari di quei primi anni italiani sono ricchi di impressioni e commenti che anticipano la distinzione fra immaginazione e realtà che caratterizzerà tutta la sua narrativa. Scrive nell'ultima pagina del diario romano di quell'anno, il 17 maggio 1873: «Addio, i bagagli, il dolore acuto di andarsene. Dopo cinque mesi a Roma riuscire a riassumere, in tributo e omaggio, la propria esperienza, l'intera avventura della propria sensibilità. Ma in realtà ho vibrato troppo, la somma di così tanto non è facile. Restano l'istintiva passione per questo luogo, un'incalcolabile numero di impressioni che suppongo si accumulano senza rumore negli oscuri e protettivi meandri della memoria, certi che riemergeranno vividamente se la vita o l'arte le cercheranno. Quanto alla passione, cinquanta sorsate d'acqua della Fontana di Trevi non potrebbero renderci più ardentemente sicuri che ritorneremo ad ogni costo».
Ritornerà diverse volte, all'apice della fama, mentre fra Venezia e Firenze scrive i grandi romanzi come Ritratto di signora, sublime contrasto del rapporto fra America ed Europa. E a Roma, che negli ultimi tempi troverà piena di contrasti anche se sempre «supremamente interessante per quelle menti colte in grado di percepirne le transizioni nascoste», frequenterà con affetto il giovane amico incontrato nel 1899 a 56 anni, lo scultore norvegese Hendrik Christian Andersen, di trent'anni più giovane. Henry James non si sposò mai, coltivò il celibato e affettuose amicizie di entrambi i sessi. Non importano le congetture dei biografi. Nonostante migliaia di lettere appassionate, la sua vita privata, per quanto irrisolta, resta una faccenda privata, come il suo riserbo richiedeva. L'incontro con Hendrik portò una gran luce, fu come se la vita imitasse l'arte. Lo scrittore aveva infatti creato venticinque anni prima, nel suo primo romanzo dal titolo Roderick Hudson e ambientato a Roma, un giovane scultore di genio misteriosamente simile al norvegese. L'amicizia fra i due fu immediata e profonda, e durò fino alla morte dello scrittore avvenuta nel 1916, a Londra.
James riconobbe subito il talento del giovane artista e divenne presto suo mecenate, senza peraltro risparmiargli critiche severe per il suo progetto utopico di una grande città mondiale per la cultura, che lui disapprovava.Se fu un amore, fu splendido e nobile, il museo Andersen a Roma - la casa, l'atelier e le sculture che alla sua more nel 1940 Hendrik lasciò all'Italia - testimonia ancora oggi di una stagione felice.
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