L'idea di canzone engagé ha fatto storicamente molto male sia alla musica (conosciamo gente che non si è ancora completamente ripresa dopo l'ascolto de I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini), sia alla politica: ancora oggi, a una quarantina d'anni di distanza dal periodo d'oro del cantautorato, non c'è nascente soggetto politico che non pensi di dotarsi di una qualche specie di totem con chitarra. Più che il filosofo o il politologo di riferimento si cerca, con inconsapevole sbraco postmoderno, il cantante-bandiera: dalla secolare questione degli inni del Pd (domanda fondamentale: meglio Jovanotti o la Nannini?) alle posizioni politiche di un Franco Battiato che ha dismesso sia i raga della sera che la Paloma ed è entrato nella giunta siciliana Crocetta, con esiti anche verbali di fantastica comicità involontaria, come: «Chiamatemi assessore alle meccaniche celesti».
Adesso, e ce ne è bisogno, esce un libro che sembra una ulteriore palata di terra sul concetto di musica «impegnata», sulla «diversità» prima ideologica, poi «civile» della canzone politicamente avvertita. Non solo, Innocenti evasioni. Uso e abuso politico della musica pop di Eugenio Capozzi (Rubbettino 196 pp, Euro 14) ci sbarazza di un'ambiguità fondamentale: il mito della musica pura, non commerciale, sorta di versione pop di quello del buon selvaggio di Rosseau. In fondo, nota Capozzi, l'idea di purezza «anticommerciale» della musica, è il più efficace strumento di marketing: molti artisti sulla loro purezza hanno fatto milioni di dollari.
Interessante poi, secondo l'analisi di Capozzi, che tutto il movimento controculturale, e del flower power di fine anni 60, sia sfociato in una antropologia «liberatoria» perfettamente integrata nel mercato. Le strofe di The times they are a changin' di Bob Dylan («La vostra strada sta rapidamente invecchiando/ per favore, toglietevi da quella nuova») sono sfociate non «in una qualche etica di impegno rivoluzionario», ma nella «ulteriore diffusione, se non l'apoteosi, di una visione edonistica della vita». Niente di male, naturalmente, ma nemmeno nulla che possa giustificare una portata politica o contenutistica dell'oggetto canzone. Anzi, scrive Capozzi, forse il brano musicale che ha raccontato meglio la fine della fascinazione politico-esistenziale del rock è Hotel California degli Eagles «che racconta una storia a forti tinte surreali/allegoriche: quella di un viaggiatore lungo una dark desert highway costretto da una forza misteriosa a fermarsi in uno strano hotel, dove si succedono figure e fenomeni inquietanti, e dal quale egli apprenderà che è impossibile uscire».
Una metafora dell'utopia pop e rock insomma: una musica (al di là dei suoi meriti formali) che è un fantastico mezzo per fare cronaca, ma che come motore del cambiamento in vista magnifiche sorti e progressive non serve granché, se non come fantasmatico Hotel California, una trappola ideologica.
Eppure in Italia il mito della canzone politica, in particolare del cantautore engagé, per decenni è stato inscalfibile. Ha scritto Gianni Borgna che i primi cantautori «erano i portavoce di un malessere diffuso verso le mitologie del benessere e del consumo, verso l'Italia gaudente e volgare di quegli anni». Senonché, Capozzi dimostra che il lato schiettamente politico della produzione cantautorale è decisamente minoritario, sia come quantità che come qualità. Di De Gregori si ricorda più Rimmel che Disastro aereo sul canale di Sicilia.
E dalla data simbolo del 1976, quando, durante un concerto il cantautore romano fu preso in ostaggio da un gruppo di «rivoluzionari» di sinistra e sottoposto a una sorta di processo sul palco (gli fu chiesto tra l'altro perché non devolvesse i suoi guadagni alla «causa del popolo») Capozzi racconta la fuga progressiva dei cantautori dall'impegno. La cronaca di Capozzi si ferma al 1980. Continuando, avrebbe potuto raccontare l'ultimo paradosso: l'assunzione cantautorale al pantheon politico.Twitter @BGiurato
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