La Rivoluzione d'ottobre si abbatté su Ivan Bunin come una maledizione. Non ancora cinquantenne, si era già ritagliato un ruolo tutto suo nell'avanguardia russa di quel primo Novecento che oscillava fra simbolismo e positivismo, si era visto assegnare per due volte il premio Pukin, era membro onorario dell'Accademia delle Scienze.
Apparteneva per nascita alla nobiltà rurale, Bunin, ma era una nobiltà decaduta e poi sfociata in una miseria senza uscita. Aveva cominciato a scrivere che era ancora molto giovane, versi all'inizio, e poi prosa, l'incoraggiamento e l'amicizia di Cechov, in seguito di Gorkij ne avevano lentamente, ma costantemente, favorito l'ascesa. Allo scoppio della Grande guerra la pubblicazione di Il signore di San Francisco aveva confermato la sua maestria nell'arte del racconto, e insieme rivelato una magia verbale che non aveva più bisogno, come per Il villaggio o per Valsecca, del mondo contadino russo come sfondo privilegiato. Ciò che però da questi ultimi era emerso con chiarezza era come il suo autore non nutrisse alcuna illusione sulla sanità del popolo russo, e ciò che più in genere era fino ad allora venuto fuori, in una vita dove la scrittura, anche giornalistica, si era mischiata a un'intensa voglia di vedere il mondo, la Francia e l'Italia, la sponda araba del Mediterraneo e Ceylon, era come per Bunin il marxismo fosse rimasto un oggetto misterioso e insieme ripugnante, anche e soprattutto dal punto di vista estetico. «Ieri ho preso parte all'incontro del mercoledì. Majakovskij indossava una morbida camicia senza cravatta e chissà perché portava il colletto della giacca sollevato, come quei tipi che abitano in squallide camere d'albergo e la mattina, mal rasati, si incamminano verso il cesso».
Giorni maledetti (Voland, pagg. 216, euro 18, traduzione e cura di Marta Zucchelli) si intitola appunto il diario dei due anni, il 1918 e il 1919, in cui prima a Mosca, poi a Odessa, Bunin cerca non tanto di capire che cosa in Russia stia accadendo, quanto come e fino a quando fronteggiare «la frenesia, il delirio acuto» che si sono impadroniti del Paese. «Nei giorni in cui venivano proclamati fraternità, uguaglianza e libertà lo spirito demoniaco del rancore di Caino, della ferocia e del più belluino arbitrio spirò sulla Russia. Ciò che in buona sostanza caratterizza le rivoluzioni è una rabbiosa smania di messinscena, di spettacolo, di artificiosità, di farsa. Si ridesta la scimmia annidata in ogni essere umano».
Bunin non è un intellettuale estraneo al suo tempo, conosce bene i guasti e gli errori della monarchia dei Romanov, la corruzione e l'inefficienza della burocrazia zarista, i limiti della sua aristocrazia. Conosce però altrettanto bene la ripetitività della storia russa, con il suo «furfantesco girovagare così caro alla Rus' da tempi immemorabili, nel desiderio di vivere la disinvolta vita dei briganti, che tutt'ora coinvolge centinaia di migliaia di individui respinti, allontanati dalle famiglie e variamente corrotti». Sa, con Dostoevskij, che la letteratura realista populista, con il suo misticismo, con il suo socialismo umanitario, con il suo entusiasmo sganciato da ogni realtà, da ogni contatto con l'esistente, altro non è stato che «indossare ghirlande di alloro sulle teste pidocchiose». È anche per questo che la rivoluzione bolscevica gli appare nient'altro che «la variante sanguinosa del gioco della sedia, con il popolo che, sebbene per un po' gli sia riuscito di sedersi, bere e far baldoria al posto del signore, finisce sempre per cadere dalla padella alla brace».
Ciò che però lo sgomenta del leninismo al potere è proprio il salto in avanti che esso compie rispetto alle sollevazioni, alle insurrezioni, alle rivolte e ai tumulti che la Russia ha sempre conosciuto, al suo essere, per usare un'immagine di Marina Cvetaeva, «un Paese di risse, non un Paese d'amore». Per Bunin, «il diabolico segreto dei bolscevichi sta proprio nel suo annichilimento. Le persone vivono secondo un limite che definisce anche le sensibilità, l'immaginazione - e questo limite è stato ormai oltrepassato. Non c'è più spazio per lo stupore, per gli strepiti, si resta pietrificati, indifferenti».
La rivoluzione, si trova a riflettere Bunin, ha distrutto il mondo di prima, dalle città alle relazioni interpersonali, alle professioni, persino alle abitazioni private... Democrazia e libertà sono le parole d'ordine, ma mentre scrive il suo diario sa che il suo contenuto, con le sue critiche, con i suoi sdegni, se scoperto potrebbe costargli la vita. Scrive e poi nasconde quelle pagine, e lo fa talmente bene che quando alla fine decide di fuggire da un'Odessa ormai per lui invivibile, molti di quei fogli non riuscirà più a trovarli...
Come osserva Marta Zucchelli nella sua imprescindibile introduzione, Giorni maledetti «rappresenta l'anello che congiunge le opere di Bunin scritte prima del 1917 e quelle dell'emigrazione. Bunin lascerà Odessa dopo che la controrivoluzione dei cosiddetti russi bianchi risulta ormai sconfitta: arriverà per nave a Costantinopoli, da lì giungerà a Sofia, dove in albergo verrà derubato di ciò che era riuscito a portarsi dietro, raggiungerà fortunosamente Belgrado e infine Parigi: fino alla morte, sarà la Francia la su nuova patria.
Da emigrato però, eviterà la trappola del ricordo: Tutto verrà filtrato dalla memoria, l'unica arma, insieme alle parole, in grado di sconfiggere ed esorcizzare la morte e la barbarie bolscevica e di restituire la Russia prerivoluzionaria per sempre perduta eppure eternamente presente».Uscito nel 1930, La vita di Arsene'v dimostrerà che quegli anni maledetti lo avevano spogliato di tutto, ma non della sua grandezza di scrittore.
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