Il giovane Holden di Salinger? Un Huckleberry Finn dei quartieri alti di Park Avenue. Andrè Gide? Uno scrittore privo di immaginazione e estremamente insincero. Ezra Pound? La sua vera gabbia non era dove l'avevano rinchiuso ma la sua vita. Humphrey Bogart? Un attore senza teorie tranne quella di essere pagato. Picasso? La piovra dell'arte. Marlon Brando? Il Rodolfo Valentino della generazione bop.
Sono questi alcuni giudizi, per lo più al vetriolo, espressi in molti articoli di saggistica da Truman Capote, lo scrittore americano conosciuto a tutti per il suo A sangue freddo. E sono ora raccolti da Garzanti nelle nuove edizioni di I cani abbaiano e Giardini nascosti. Certo in quegli anni '70 Capote era diventato un alcolista imbottito di pillole: lui la definiva una «crisi creativa». Nella prefazione al romanzo Musica per camaleonti, il penultimo libro pubblicato in vita, racconta di essersi reso conto di lavorare con soltanto la metà o un terzo delle sue capacità per essersi messo in testa di epurare e perfezionare il proprio stile. La verità è più che altro che era disperato all'idea di scrivere qualcosa e istintivamente tornò alle sue radici - ai ricordi d'infanzia, alle stranezze e agli eccentrici che popolavano la sua prima narrativa - lasciandosi alle spalle il mondo dell'alta società.
Tra queste pagine, oltre che nei protagonisti della letteratura e del cinema, ci imbattiamo anche in descrizioni di città: della New Orleans del 1946 scrive che l'atmosfera è «come quella dipinta nei quadri di De Chirico», e un anno dopo scrive la stessa cosa di Hollywood: «Qui dove nessuno cammina le auto scivolano in un flusso costante e silenzioso, la mia ombra, che si muove lungo la strada bianca e spoglia, è come l'unico elemento vivo di un De Chirico».
Capote amava l'ombra tropicale e la spettrale penombra, così come amava le nebbie veneziane, le case dei pensionanti, le statue dei cimiteri. Dalle sue descrizioni, a volte è difficile distinguere un luogo dall'altro - la Brooklyn di Capote è praticamente indistinguibile da New Orleans - e questo perché tutti i suoi paesaggi aspirano in qualche modo al Sud ricordato della sua infanzia. Anche quando descrive il presente, molti dei pezzi hanno un sapore nostalgico, e su quasi tutti aleggia un'atmosfera di eccessiva maturità, di fiori che iniziano a sfiorire. «Non avevo mai conosciuto nessuno che scrivesse», ha detto una volta Capote a proposito della sua infanzia in una piccola città del Sud e «in effetti conoscevo anche poche persone che leggevano».
Queste selezioni di saggi, estratti e interviste, ricordano anche il Capote che era allo stesso tempo uno scrittore e un giornalista letterario arrivista dei suoi tempi: il bon vivant che si nutriva di patate al forno ripiene di caviale; il romantico tormentato che dichiarava che la parola più bella e la parola più pericolosa in inglese erano la stessa cosa: «amore». Era anche il pettegolo, l'amante della mondanità e l'attaccabrighe che non amava gli attori: di John Gielgud dice: «Tutto il suo cervello è nella voce»; di Marlon Brando: «Nessun attore... ha trasportato la falsità intellettuale a livelli più alti di esilarante pretesa».
Allo stesso tempo è anche un Capote al massimo della sua rilassatezza, incline a prendere in giro le sue stesse numerose bizzarrie, soprattutto quando si scontrano con le eccentricità degli altri. Il racconto di Capote di una cena a base di pollo con un famoso artista andata male è uno dei pezzi più divertenti della letteratura culinaria e un piacere in qualsiasi contesto.
Forse nessuno scrittore del XX secolo è stato un cronista così attento e aggraziato dei suoi tempi come Truman Capote. Giardini nascosti è il primo volume dedicato esclusivamente a tutti i saggi pubblicati da questo amatissimo scrittore.
Ci sono anche i pezzi dei primi anni della sua carriera, quando Capote non la smetteva mai di lavorare sulle storie e sulle sceneggiature. Ma era soprattutto il giornalismo ad alimentare la sua immaginazione. Non era soltanto prolifico, ma anche un consumato creatore di frasi poi diventate etichette in quella società mondana: famosa quella dedicata al regista John Huston: «Un dandy allampanato e strascicato».
Tra i brani raccolti c'è anche quello che lo ha portato alla fama: The Duke in His Domain, il leggendario profilo di Marlon Brando datato 2 novembre 1957 e apparso sul New Yorker. Capote descrive Brando a Kyoto, in Giappone, mentre sta girando la versione cinematografica di Sayonara di James Michener. Descrive gli oggetti presenti nella stanza di Brando, i calzini, le scarpe e le giacche, le camicie da mandare in lavanderia. E libri, una cascata di pensieri profondi, tra i quali si vedeva The Outsider di Colin Wilson e varie opere sulla preghiera buddhista, sulla respirazione degli Yogi e sul misticismo indù. Ma niente narrativa, perché «Brando non legge nulla».
«Dichiara di non aver mai aperto un romanzo dal 3 aprile 1924, giorno della sua nascita, a Omaha, Nebraska», scrive Capote. E aggiunge: «ma anche se non gli interessa leggere narrativa, desidera scriverla, e il lungo tavolo laccato era pieno di posacenere stracolmi e di pagine accatastate della sua ultima fatica creativa, che si dà il caso sia una sceneggiatura cinematografica». Le tecniche utilizzate da Capote - l'osservazione minuziosa dell'ambiente, la registrazione accurata di ogni sfumatura del dialogo, la paziente attesa del piccolo gesto rivelatore (Brando che schiaffeggia il tavolo, con allegria o forse con indignazione) che rivela il carattere - hanno ispirato generazioni di cronisti del jet set, pochi dei quali hanno operato con l'intelligenza, il brio o la precisione di Capote.
L'articolo su Marlon Brando è rivelatore anche del suo erotismo sublimato. Capote (come la maggior parte del mondo di allora) era attratto dal giovane Brando, e in seguito avrebbe stretto un forte e doloroso legame con Perry Edward Smith, uno degli assassini del caso descritto in A sangue freddo, del quale avrebbe osservato la morte, quando fu giustiziato per impiccagione il 14 aprile 1965.
A differenza del profilo di Brando, tuttavia, il romanzo A sangue freddo è scritto senza ironia e senza intrusioni autoriali, con un distacco di stampo flaubertiano che permise a Capote di affermare di aver inventato una nuova forma letteraria, «il romanzo di non-fiction», sebbene altri scrittori del New Yorker, in particolare Joseph Mitchell e Lillian Ross, avessero già imboccato questa strada.
È consuetudine sostenere che Capote sia stato vittima della celebrità che bramava.
Ma in lui c'era anche qualcosa di eroico, perché ha affinato il suo mestiere e sacrificato la sua tranquillità e il suo equilibrio morale pur di (de)scrivere la vita che lui non è riuscito a vivere, ma soltanto a raccontare.
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