Ragione (e realismo) di Stato Parla il «potente» Richelieu

Le massime del primo ministro di Luigi XIII hanno ancora molto da insegnarci: per governare servono determinazione e saggezza

Francesco PerfettiPotrebbe apparire singolare, in un'epoca nella quale risuonava ancora l'eco delle sanguinose guerre di religione, il fatto che il cardinale Jean-Armand du Plessis de Richelieu (1585-1642), giunto al culmine della propria potenza, avesse scelto come suo ritrattista ufficiale un pittore in odore di giansenismo, Philippe de Champaigne, anziché il celeberrimo e corteggiato Pieter Paul Rubens, convertitosi dal protestantesimo al cristianesimo e divenuto il pupillo di Maria de Medici. Quali che ne siano stati i motivi sincero apprezzamento per l'artista o gesto polemico la scelta di Richelieu fu indovinata. I suoi ritratti, in piedi o a mezzo busto, fatti da questo pittore non solo ne hanno immortalato le fattezze esteriori ma ne hanno colto la personalità, il carattere. Lo sguardo, a volte severo a volte malinconico ma sempre pensoso, il naso aquilino, le guance incavate, le labbra dure e sottili tra i baffi e il pizzetto, danno l'impressione di un uomo severo, astuto, abile, di grande intelligenza, abituato al comando, non alieno dall'intrigo sottile per portare a termine disegni politici di ampio respiro. Se il suo fisico non era vigoroso come sembrerebbe da alcuni ritratti, la sua forza di volontà era invece incontenibile e capace di imporsi a se stesso e a chi, fosse anche il Re, aveva a che fare con lui. Il suo carattere era sostenuto da una fortissima ambizione che lo spingeva a usare tutti i mezzi, comprese l'adulazione e la dissimulazione, per conquistare il potere e consolidarne il possesso. Ma il suo successo personale non era fine a se stesso perché l'amore che egli nutriva per la Francia e la devozione che riservava alla Corona erano autentici.Nato a Parigi nel 1585 ma appartenente a una famiglia dell'antica nobiltà feudale originaria della Francia occidentale, Richelieu fu, in un certo senso, il fondatore dello Stato francese moderno e l'uomo che, sostenendo l'idea della supremazia gallica in Europa, gettò le basi per quel culto della grandeur che avrebbe ispirato fino ai nostri giorni larghi settori della intellettualità e della politica d'Oltralpe. Di lui ha detto, riconoscendone implicitamente la grandezza e la necessità storica, quella intelligente malalingua di Sainte-Beuve: «La divina Provvidenza, che non teneva in alcun conto Luigi XIII, fece nascere Richelieu perché colmasse il vuoto tra due grandi Re, Enrico IV e Luigi XIV»: la battuta è certamente gustosa anche se ingiusta nei confronti del sovrano che ha legato il suo nome a quello del Cardinale e che, in qualche modo, ha avviato il processo di centralizzazione e modernizzazione dello Stato francese che sarebbe stato portato avanti da Luigi XIV e che avrebbe connotato, nel bene e nel male, il Grand Siècle. Lo stereotipo di un Richelieu sprezzante nei confronti di Luigi XIII e, quasi, in aperta concorrenza con lui uno stereotipo la cui fortuna nell'immaginario popolare è in gran parte dovuta al ritratto che ne fa Alexandre Dumas padre ne I tre moschettieri presentandolo come un cinico e amorale doppiogiochista capace di far tremare la Francia e l'Europa è inesatto e fuorviante perché, nella realtà, il Cardinale Richelieu o la «volpe in rosso», come fu definito, ebbe sempre un profondo rispetto per il Re proprio in quanto Re che incarnava la Francia e la sua storia. Su questo punto ha scritto delle pagine belle e acute un grande intellettuale cattolico inglese, Hilaire Belloc, in una biografia che presenta, fra l'altro, Richelieu come «fondatore» dell'Europa moderna perché, con la sua azione, gettò i semi di quello che sarebbe, poi, stato il nazionalismo e, al tempo stesso, rese permanente la divisione tra la cultura cattolica e la cultura protestante. La gratitudine e la riconoscenza di Luigi XIII nei confronti del Cardinale, divenuto dal 1629 suo «principal ministre d'État» ovvero primo ministro, sono tutte in una battuta eloquente del sovrano: «Richelieu mi ha fatto recitare il secondo ruolo nel governo ma il primo in Europa».Quale fosse davvero il rapporto tra Richelieu e Luigi XIII lo si può desumere leggendo il volume dello stesso cardinal de Richelieu dal titolo Testamento politico. Massime di Stato (Aragno, pagg. 378, euro 22; trad. e cura di Alessandro Piazzi). Si tratta di un testo, redatto probabilmente fra il 1635 e il 1640, sulla cui autenticità, ora accertata, Voltaire cercò invano di sollevare dubbi. È uno scritto di carattere storico e teorico al tempo stesso: una ricostruzione succinta ma efficace dei principali avvenimenti dei quali il Cardinale e il Re furono protagonisti, seguita da una parte teorica (sulla natura della politica, sulla gestione del potere, sulla conduzione dello Stato) che suggerisce di inserire Richelieu nel filone dei grandi pensatori politici che si muovono all'insegna del realismo. Con una differenza, però. Che Richelieu non era solo un teorico, ma anche, e prima di tutto, uno statista capace di portare avanti il suo progetto di consolidare, all'interno, il potere della Corona annientando le opposizioni anche religiose e di rafforzare, all'esterno, il prestigio della Francia ridimensionando con la guerra la potenza asburgica di Spagna e di Austria. In tal modo egli fece della Francia lo Stato guida dell'Europa e, nel contempo, gettò le basi per la costruzione di quell'assolutismo che sarebbe stato portato alle estreme conseguenze dal Re Sole.Il Testamento politico di Richelieu e le Massime di Stato che lo completano formano, nel loro insieme, un vero e proprio trattato che suggerisce a Luigi XIII come debba comportarsi un sovrano e gli spiega, altresì, come debba gestire il potere e riorganizzare il Paese, anche dal punto di vista della struttura amministrativa. Il realismo politico di Richelieu si fondava sul pessimismo e sulla necessità di contrastare le linee di tendenza di «un secolo debole e corrotto» nel quale «avrà più difficoltà un uomo onesto, virtuoso e forte» che un uomo «cattivo o vizioso». Richelieu notava, per esempio, che uno dei mali della Francia del tempo stava nel fatto che nessuno rispettava «il limite del proprio ufficio»: «il soldato dice ciò che dovrebbe fare il suo capitano; il capitano rileva i difetti del suo maestro di campo; ma né gli uni, né gli altri sanno compiere il proprio dovere». Le riforme amministrative, politiche, militari che egli proponeva miravano, proprio, a restaurare l'ordine naturale e la gerarchia delle cose rafforzando l'unicità del potere.

Quest'uomo che, pure, sviluppò una eccezionale politica culturale e creò una istituzione, l'Academie Française, aperta al merito indipendentemente dall'estrazione sociale, fu - proprio in virtù del suo realismo e del suo pessimismo - un nemico della intellettualità trasformata in categoria sociale perché, a suo parere, non poteva esistere uno Stato nel quale tutti i sudditi fossero intellettuali: «vi regnerebbe diceva pochissima obbedienza perché l'intelligenza genera orgoglio e presunzione».

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