Neanche una piega, macché. Come ogni vera macchina da show, Beyoncé sale sul palco di San Siro lasciando nei camerini il proprio stato d'animo, le beghe quotidiane, i maldipancia o le gioie di chi ogni giorno cambia città, nazione, magari continente. Cinquantacinquemila persone o poco più. Il tramonto che colora di rosa il cielo sopra San Siro. Band impeccabile, ballerini pure, suono kolossal (Live Nation è una garanzia, San Siro un po' meno). Subito una intro, più Formation, Sorry e una Irreplaceable cantata a cappella che mette subito in chiaro perché i suoi tifosi la chiamano «Regina». Beyoncé Giselle Knowles-Carter, trentacinque anni tra poche settimane, ora per caso bionda e domani chissà, è la Wonder Woman del nostro pop perché non sbaglia un colpo a meno che non la paghino per farlo, e quindi non lo sbaglierebbe neanche in quel caso. Sembrerebbe un automa tanto è perfetta. E per questo è lo spauracchio di (quasi) tutte le sue colleghe, obbligate a confrontarsi con standard che difficilmente riescono a raggiungere.
Dopotutto la forza di Wonder Beyoncé Woman è di capitalizzare la propria vita privata. Il suo nuovo disco Lemonade, che per la cronaca è uscito a fine aprile e ha già venduto 6 milioni di copie (653mila solo nella prima settimana negli States), è nato dal dolore dopo uno dei soliti tradimenti del marito Jay Z ma è diventato un manifesto per le donne afroamericane che cercano consapevolezza e quindi guarigione da peccati capitali tipicamente femminili come la sottomissione e l'accettazione passiva. Un capolavoro di marketing, bisogna ammetterlo. Se non altro perché giusto in questi giorni la Regina è stata avvistata vicino a quel ramo del lago di Como a bordo di una Alfa Romeo Duetto. Lei sul sedile passeggero, capelli al vento. Lui, Jay Z, il Re Mida del pop nonché marito fedifrago, al volante. Altro che Lemonade e manifesti femministi. Dopo sono entrati al Casta Diva Resort di Blevio (chef Gennaro Esposito) e verso le 16 hanno fatto aprire la cucina per un pranzo da dodici persone.
Dustin Hoffman guidava la Duetto nel Laureato inseguendo un amore difficile che è diventato un cult tanto sopravvive ai decenni. Beyoncé e Jay Z l'hanno condivisa mostrando coram populo un amore semplicemente impossibile per noi umani.
E agli umani sembra impossibile anche la scansione chirurgica dei circa trenta brani di questo show imparagonabile a qualsiasi altro tanto è «licensed to kill», autorizzato a uccidere ossia a convincere anche i più scettici. Ci sono canzoni come Baby Boy o Me, Myself and I che diventano trampolini per il lato spettacolare dello show. E altri, come Ring the alarm, Love on top (a cappella) e Freedom che sono palestre di un talento vocale incontestabile, spiegato su quattro ottave e versatile come pochissimi altri.
Non fosse zavorrata da un repertorio quasi esclusivamente black e r&b, Beyoncé potrebbe essere ben più globale di quanto è adesso. Troppo talento. Troppa abitudine a vittorie impossibili. Invece anche qui a San Siro risulta ingabbiata in molti cliché tipicamente americani, festosamente e clamorosamente americani, e non si parla soltanto della grandeur kolossal dell'allestimento o del ritmo implacabile delle esecuzioni. Noi europei - e non è un caso che Bruce Springsteen qui sia una divinità forse più grande che a casa propria - amiamo le imperfezioni, le sbavature, l'umanità dell'esibizione che poi è il lato oscuro del pop. Lei no.
Qualche anno fa, a Liverpool per un Mtv Awards, durante le prove è stata per venti minuti immobile davanti al microfono dell'Echo Arena per seguire minuziosamente le richieste di un fonico preoccupato per la resa vocale durante lo show. Una roba che quasi tutte le altre superstar avrebbero delegato a qualche assistente. Perciò qui a San Siro Beyoncé è sembrata una extraterrestre che ha provato a portare via il pubblico italiano. L'ha fatto a tratti.
E a tratti si è fatta più che altro ammirare come si ammira la perfezione, più o meno plastificata, più o meno sincera. Ma quando il quasi classico Halo ha fatto spegnere le luci, nessuno sugli spalti osava fiatare, neanche una parola, con lo stesso rispetto che si ha per le caste dive passate per caso tra noi umani.
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