"Rifkin’s Festival" di Allen, giocosa evasione per cinefili ma non solo

Con una San Sebastian da cartolina sullo sfondo, va in scena un divertissement amabilissimo, che regala un’ora e mezza in compagnia della quintessenza dei temi alleniani

"Rifkin’s Festival" di Allen, giocosa evasione per cinefili ma non solo

Quale migliore occasione di Rifkin’s Festival, il nuovo film di Woody Allen, per riassaporare il piacere della sala cinematografica? La decisione di renderlo fruibile soltanto al cinema appare perfetta. Difficile, infatti, immaginare un vessillo migliore per chi intenda tenere vivo il tempio cittadino deputato alla settima arte.

“Rifkin’s Festival”, cinquantesimo film di Allen, è un condensato di quanto caro al regista, ovvero un giocherellare nostalgico su psicoanalisi, rapporti coniugali disfunzionali e mondo del cinema.

Quella che è l’opera più leggera e spensierata firmata dal cineasta negli ultimi anni, in epoca normale sarebbe forse stata percepita solo come una godibile serie di déjà vu, mentre oggi appare un toccasana necessario. Cosa c’è di meglio, infatti, in tempi pandemici, che affidarsi a chi ha fatto un’arte del sorridere delle proprie nevrosi e di inquietudini esistenziali variamente assortite, per staccare dalle nostre?

Mort Rifnik (un Wallace Shaw perfetto nel ruolo), ex insegnante di cinema alle prese con la stesura del suo primo romanzo perennemente incompiuto, accompagna sua moglie Sue (Gina Gershon) al festival del cinema di San Sebastien, dove la donna segue il giovane e vanesio regista Phillippe (Louis Garrel) come ufficio stampa. Vedendo i due sempre più complici, risucchiati da proiezioni, party e interviste, Mort si convince che abbiano una storia e non ha tutti i torti. Nel dubbio, non può far altro che gironzolare per la cittadina fino a quando, durante un controllo di salute, s’imbatte in un’avvenente dottoressa del posto, Jo Royas (Elena Anaya). Da quel momento, nonostante la scopra sposata con un egocentrico e fedifrago pittore spagnolo, cerca ogni scusa per poterla rivedere.

Forse perché la trama è impalpabile, semplicemente funzionale alla riflessione mai seriosa sui meccanismi amorosi e alla bonaria derisione del parterre di individui che popolano i festival cinematografici, il film sembra avere come protagonista non tanto un personaggio quanto una disposizione d’animo. Il riferimento è alla briosa ironia ammantata di malinconia che, per quanto familiare dopo essere stata declinata da Allen in decine di film, non manca di deliziare.

Già con la musica dei titoli di testa si è trasportati da voce carezzevole e ritmo sognante in un altrove in cui, sappiamo già, ritroveremo l’entusiasmo perduto, aiutati da personaggi intenti a farlo. Allen si affida ancora una volta ad una sorta di alter ego, ennesima variazione del protagonista intellettuale di origine ebraiche e dall’indole ora caustica ora romantica, che abbiamo amato in quasi tutti i suoi film.

Nonostante l’assenza di grandi nomi (ad eccezione di un cameo di Christoph Waltz) il cast è perfetto così. A rubare la scena interrompendo continuamente la linea narrativa sono i momenti in cui si fanno rivivere, in un contesto onirico soggettivo, alcune tra le scene più iconiche del cinema d’autore del secolo scorso. Allen sembra voler rimarcare la distanza tra i suoi numi tutelari (come Truffaut, Buñuel, Fellini e Bergman) e certi sedicenti enfant-prodige del cinema attuale.

Da non sottovalutare la presenza di un paio di riferimenti che potrebbero connotare “Rifkin’s Festival” come più corrosivo di quanto appaia: laddove, ad esempio, uno dei personaggi asserisce che un artista non possa essere giudicato secondo criteri borghesi, è difficile non pensare a come le accuse legate alla vita privata di Allen ne abbiano compromessa quella professionale.

Viene il dubbio che la frase finale, pronunciata dal protagonista, non sia diretta

soltanto al suo analista ma sia sarcasticamente rivolta al pubblico: cosa abbiamo da dirgli dopo tutto quello che ci ha raccontato e regalato negli anni con i suoi film? Ognuno, in cuor suo, risponderà come meglio crede.

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