Rossi, Spinelli, Einaudi e l'equivoco europeo

Tra "Manifesto di Ventotene" e le idee dell'economista liberale le distanze erano enormi. Tranne sul sovranismo

Rossi, Spinelli, Einaudi e l'equivoco europeo

Una vecchia foto, cara ai federalisti italiani, ritrae Luigi Einaudi che conversa con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, due degli autori del Manifesto di Ventotene composto nel 1941 al confino nell'isola pontina. Quella foto dovrebbe essere il simbolo di una continuità ideale, del legame spirituale tra gli azionisti Rossi e Spinelli e il grande economista liberale che, nel 1920, aveva pubblicato un libro, Lettere politiche di Junius, in cui erano raccolti gli articoli scritti per il Corriere della Sera tra il 1917 e il 1919 tre dei quali, fortemente critici della wilsoniana Società delle Nazioni alla quale si contrapponeva una vera (sia pur limitata) federazione europea. L'embrassons-nous tra un ex comunista (Spinelli) un ex nazionalista (Rossi) e un liberale doc (Einaudi) era l'effetto dell'onda lunga di una political culture piemontese e gobettiana, che affogava liberali e marxisti, conservatori e socialisti, repubblicani e cattolici nel mare magnum dell'Italia repubblicana e antifascista.

Ad analizzare oggi i testi, ci si chiede, però, se davvero Rossi e Spinelli avessero letto e meditato a fondo le Lettere di Junius e se davvero lo avesse fatto Einaudi con Il Manifesto di Ventotene. Nelle prime, infatti, si trova un tema del tutto estraneo al secondo: la difesa appassionata dell'Italia risorgimentale e della sua eredità storica minacciata dall'imperialismo germanico e dagli ostacoli anacronistici posti all'avanzata di un progresso scientifico e tecnologico che significava ampliamento dei mercati e necessità di superare il sovranismo al fine di regolare i sempre più estesi scambi di merci, di manodopera, di culture tra gli europei. L'Einaudi, che vede nella tragedia di Caporetto il segno di una profonda decadenza morale, della perdita degli ideali di Cavour e di Mazzini dovuta al progredire del materialismo e dell'utilitarismo, e rivendica, con fermezza, Fiume all'Italia -«vogliamo che Fiume sia serbato a noi, vogliamo conservati quei beni imponderabili preziosissimi che si chiamano lingua, tradizioni, appartenenza politica, bandiera»- è ben lontano dal neo-illuminismo azionista di Rossi e Spinelli. E, semmai, è vicino alle punte più radicali dell'antigiolittismo. « Viene davvero il vomito -scriveva- a pensare che gli eredi di Vittorio Veneto possano essere socialisti ufficiali, clericali organizzati e liberali di stile giolittiano». A suo avviso, la guerra aveva portato alla luce gli «istinti profondi di una stirpe civile ed antica» incarnata nel ceto medio, negli ufficiali che «trasformarono l'anima del fante e divenuti fratelli e compagni del contadino e dell'artigiano lo condussero alla resistenza prima e alla vittoria poi». Alla nuova classe dirigente, formatasi nel Trentino, sul Carso e sul Piave erano affidate le sorti d'Italia.

Dopo quello che sul Manifesto di Ventotene hanno scritto Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi, Giovanni Belardelli e altri, la condivisione delle sue tesi da parte di Einaudi risulta ancora più strana. Se per l'economista piemontese il progetto europeo doveva servire a preservare l'Italia liberale e i suoi valori antichi, per Spinelli e Rossi doveva rendere possibile quella rivoluzione socialista irrealizzabile nell'ambito di uno Stato nazionale divenuto il ferro vecchio della Storia. Di qui l'importanza di un partito giacobino consapevole che «la metodologia democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria» e in grado di unire i ceti intellettuali e la classe operaia contro le forze della reazione: gli industriali, gli agrari, la dinastia, la Chiesa etc.

Al di là delle evidenziate distanze ideologiche, una tesi di fondo, però, univa Einaudi ai suoi discepoli di sinistra ed era la credenza che «il dogma della sovranità assoluta dello Stato» fosse la causa della tragedia europea. Un equivoco nato dal fraintendimento del Federalist. L'autore più citato da Junius, Alexander Hamilton, aveva teorizzato il primato della politica estera sulla politica interna: è l'anarchia internazionale, in cui versano gli Stati -ovvero la mancanza di un'autorità superiore- a determinare il loro regime interno e la prevalenza delle forze economiche, sociali e culturali più funzionali alla preparazione di una guerra sempre incombente. A Einaudi, invece, l'anarchia internazionale non pareva la causa ma l'effetto del prevalere, all'interno degli Stati, di gruppi di potere interessati al protezionismo economico, all'industria bellica, all'accantonamento della democrazia, in nome dell'unità e della potenza della nazione.

Sennonché furono la fine dell'Europa delle Grandi Potenze e la divisione del Vecchio Continente in due grandi aree egemonizzate da Stati uniti e Unione Sovietica, a rendere possibile la collaborazione economica tra vincitori e vinti che cominciò proprio nel settore cruciale del carbone e dell'acciaio, ormai non più considerati risorse strategiche irrinunciabili da Stati come l'Italia, la Francia, la Germania etc. privi ormai di libertà di movimento e quindi dimidiati nello jus belli.

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