«La Scala del futuro inizia con la Turandot ma senza lieto fine»

Il direttore sul palco il primo maggio: «È un'opera perfetta per Expo, è amata in tutto il mondo ed è nata qui»

Alla Scala è tutto pronto per il colto lancio di Expo. Il Primo maggio il teatro espone le sue eccellenze. Va in scena Turandot condotta da Riccardo Chailly: interprete numero uno di Puccini, alla sua prima opera a Milano in veste di direttore generale del teatro e al fianco del nuovo sovrintendente. Si inaugura Expo e la Scala del New Deal: più produttiva e trasversale, attiva anche nelle chiese, piazze (il 30 aprile si canta e suona sotto la Madonnina) e aeroporti (è in programma un flash mob a Malpensa). Un decollo nel segno di un beneaugurante Vincerò , lo squillo che identifica la favola della principessa di morte e di gelo, Turandot.

Appropriata la scelta di quest'opera per Expo?

«Sì perché è amata in tutti i continenti, ed è nata in questo teatro. La versione che presentiamo, col finale di Luciano Berio, guarda avanti tenendo presente le radici del passato».

A Lipsia dichiarò di sentire Puccini come un fratello gemello.

«La sua grandezza non smette di sbigottirmi. Debuttai con Puccini ( Madama Butterfly ) a Chicago, ero giovanissimo, avevo 21 anni. L'entusiasmo di allora non si è quietato neppure oggi. Penso di affrontare un percorso integrale delle sue opere. Spero di portare presto Fanciulla del West a Milano».

Pereira ha annunciato il progetto di sette opere pucciniane.

«Non inflazioneremo la stagione con Puccini, ma sarà una presenza annuale».

Nel 2002, fu lei a firmare la prima mondiale di Turandot col finale di Berio. Sempre convinto di questa versione?

«Non c'era musicista italiano più idoneo per ultimare l'opera. Non si è mai sovrapposto al compositore, è riuscito ad andare sottopelle».

Per quantità di rappresentazioni, la Turandot col finale di Alfano vince su questa di Berio. Ma lei ha convinto la Scala.

«Quella di Berio è solo un'ipotesi di soluzione. Io non sono l'avvocato di nessuno. Credo in quello che faccio, e sono confortato da questo teatro che sta esprimendo uno spirito di corpo collettivo».

Certo che con Berio manca l'happy end.

«Non manca la soluzione positiva della fiaba, però costa la morte di una persona, Liù».

Cosa ricorda della prima ad Amsterdam?

«Le prove: un vero travaglio. Berio era alle spalle, e mi urlava le correzioni. Furono ben 130 le correzioni, ora vorrei che fossero un lascito per i futuri direttori d'orchestra. Ricordo poi le lacrime di Berio. Non facevano parte del suo carattere. Erano lacrime di liberazione dalla responsabilità pucciniana. Questo finale era diventato una sua ossessione».

A Milano, con lei, torna anche il regista che firmò quella produzione.

«Fu io a proporre il regista Nikolaus Lehnhoff a Berio. Con lui avevo fatto un'esperienza folgorante con Tosca . E quando si iniziò a parlare di ipotesi registiche, al nome di Lehnhoff, Berio mi disse: “Non mi proporrai un tedesco della regia di teatro!”. Risposi, ti propongo un tedesco che ha fatto una Tosca straordinaria».

Qual è la pagina del cuore di Turandot ?

«Il congedo di Liu, è una trenodia, dal suono vellutato. Non è canto lirico, ma canto dello spirito. Qui la genialità di Puccini tocca il vertice più alto.

Questa parte me la sono studiata al pianoforte. L'armonia sembra un serpente. Di Puccini tutti riconoscono la grandezza melodica. Il problema grosso è che si ignora cosa accompagna queste melodie: ci sono sorprese timbriche, armonie inquietanti».

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