Chiamiamolo «memoir-fiction». È un genere sui generis. Consiste nell'assemblare le memorie, personali o altrui, soprattutto di famiglia, con quel tanto di invenzione che basta a collegare frammenti di un quadro storico. Ultimamente, abbiamo avuto Il sifone blu e Il libro di mio padre dello svizzero Urs Widmer e L'eredità delle dee di Katerina Tucková (tutti editi da Keller). Ma in Widmer il taglio è da commedia, e in Tucková la struttura rimanda all'etnografia.
Qui, invece, in Gli atti di mia madre dell'ungherese András Forgách, la Storia, individuale e collettiva, si prende tutta la scena, ed è protagonista, nonché regista, di un dramma, ancora individuale e collettivo. András Forgách è un io che non narra, bensì relaziona, compulsa e mette insieme documenti non più segreti cui ha avuto accesso. Un io che spia. «Assemblo mia madre con le parole ebraiche come tessere di un puzzle. Mia madre, la donna mosaico. Tutte queste parole-sensazione sono impregnate di esistenza fisica e di contenuto e io le ho sentite tutte dalla bocca di mia madre, ed è così da allora. La lingua ha funzionato come un magnetofono, come una telecamera nascosta. Ho spiato mia madre». Nel 2004 l'autore aveva già bussato all'Archivio storico dei Servizi per la sicurezza dello Stato, a Budapest, per tentare la campagna di scavo nel passato dei propri genitori morti negli anni '80, ottenendo però soltanto «tre o quattro foglietti assolutamente privi di valore». Ma questa volta, in questo romanzo poco o punto romanzato in uscita domani da Neri Pozza (pagg. 320, euro 18, traduzione di Mariarosaria Sciglitano) tutti i reperti sono lì, a disposizione sua dal 2014 e nostra da ora, a comporre una circostanziata sceneggiatura in cui ognuno recita, vivendo la propria vita, la propria parte.
La madre in questione nasce a Gerusalemme nel 1922. Si chiama Bruria Avi-Shaul, cresce bellissima e comunistissima, odiando il sionismo, non gli ebrei. Sono molti gli uomini cui fa girar la testa, ma nel dicembre del '46 ne sposa uno non bellissimo, né tutto sommato comunistissimo quanto lei, un ungherese che parla sette lingue, simpatico e cicciottello, Marcell Friedmann, classe 1920. Da Israele all'Ungheria ostaggio del soffocante abbraccio sovietico il passo è lungo. Tuttavia, come si dice, quando c'è l'amore... Però anche il corteggiamento dell'ideologia è serrato. È come un tarlo non del dubbio, ma della certezza. E dapprima arruola Marcell, ribattezzato Forgács, cioè «truciolo di legno», dai compagni, poi, quando il marito si ammala gravemente, contagia anche la moglie, reclutata nel '72. I loro quattro figli non sono più bambini, e András ha vent'anni. Nella vasta schiera dei «collaboratori segreti» del regime di János Kádár, Marcell e Bruria diventano «i signori Pápai». Il signor Pápai inizialmente svolge un compito delicato, agisce a Londra, facendo capo all'Agenzia telegrafica ungherese in Fleet Street, con l'allora piccolo András al seguito, naturalmente ignaro di tutto. Ma, ben dopo gli «eventi» (così il linguaggio burocratico dello Stato cataloga la rivoluzione del '56), negli anni Settanta, l'ormai uomo András, con il fratello maggiore Péter vuole risalire alle proprie radici materne, vuole andare in Israele. Ancora non sa (nessuno sa) che la mamma è incaricata di trarre informazioni dal 29º e dal 30º Congresso sionista mondiale...
«Il Partito aveva indotto in lei tutte e tre le componenti di Dio, patria, famiglia, stava al di sopra di lei, certo, bisognava difenderlo dagli attacchi, e talvolta aveva provato che fosse più importante della sua stessa famiglia, pur per lei sacra», scrive András nel suo libro, in cui la voce dell'autore si somma a quella delle relazioni dei capi spioni, in una specie di dialogo a distanza fra vittima e colpevoli. Qualche flebile sospetto sull'attività del padre, ad András era pur venuto, molto prima di scoperchiare la pentola dove bolliva a fuoco lento la vergogna. Ma l'aveva lasciato dissolvere con un'alzata di spalle. E anche quando il papà intellettuale e la mamma infermiera ricevettero, negli anni Sessanta, l'Onore al merito per la Patria Socialista, non poteva immaginare che...
Il pathos dell'inchiesta svolta da András, drammaturgo e traduttore di classici, richiama l'integrazione compiuta a suo tempo da un altro ungherese, Péter Estherházy, al suo Harmonia Caelestis, con L'edizione corretta della propria saga famigliare, dove si scopre che suo padre apparteneva ai servizi segreti comunisti. Ma la maledizione della collaborazione non impedisce ad András di continuare ad amare i propri genitori. «Loro due erano gli abitanti del nulla, né ungheresi né ebrei né stranieri né compagni né compatrioti. Per i compagni erano ebrei, per gli ebrei comunisti, per i comunisti ungheresi, per gli ungheresi stranieri. Patrioti senza patria. Erano abitanti dello Sheol, erano diventati abitanti dell'inferno, del loro inferno personale. Non era obbligatorio che un ebreo errante diventasse un agente reclutato, bastava il guaio di dover errare fino al giorno del giudizio».
Del resto, il regime non fu mai del tutto soddisfatto dell'operato di Pápai e signora, tanto che il tenente di polizia József Dóra, a un certo punto, suggerisce ai suoi superiori di «dedicare un'attenzione particolare» «ai rapporti della signora Pápai con l'opposizione». Qualcuno, infatti, aprì un dossier su Bruria. Un dossier scarno.
Che si chiude il 28 dicembre 1985, a più di un mese dalla morte della signora, con queste parole: «Volume vivo non resta. I dossier non contengono dati di individuo nemico». Nemmeno il Potere può muovere obiezioni all'amore di un figlio.
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