Il labirinto in cui Elisabetta Rasy ha deciso di avventurarsi con Le indiscrete (Mondadori, pagg. 252, euro 20), ovvero le prime avventurose fotografe, è ancora più complicato di quello della sua precedente fatica sulle pittrici donne: là c'era anima, avventura, epoche, ma ciascuna storicamente conchiusa nel proprio periodo figurativo, dai caravaggeschi a Charlotte Salomon travolta nella Shoah, con l'aggiunta della complessità e della specificità femminile. Qui, con le fotografe Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman, fra l'inizio e la metà del secolo scorso, ci si avventura in un groviglio temporalmente ristretto, in cui il gioco figurativo generale, compreso quello della pittura, si modifica proprio perché nuove possibilità si affacciano con le macchine fotografiche: è il mondo intero che cambia, la sua dimensione conoscitiva. E ognuna di queste biografie è un fuoco d'artificio di nomi, ambienti artistici e culturali, avventure sociali e politiche, storie d'amore.
Rasy supera sé stessa nel condurci per mano in un'esplosione di temi che ognuna delle protagoniste modula diversamente, ma sempre sul Leitmotiv della ricerca di una sé stessa nuova e rivoluzionaria tramite l'obiettivo. Rivelatrice, ideologica, oggettiva, grandiosa, microscopica: l'immagine consente a ciascuna la moltiplicazione della capacità di guardare, e quella al femminile lo fa partendo da un'ottica fino ad allora relegata in secondo piano, quindi tutta da scoprire. Apre lo sguardo del mondo su vicende, espressioni, caratteri, angoli delle città in cui viviamo, persone che incontriamo ogni giorno.
Le cinque donne di Elisabetta impugnano la macchina fotografica come Sherlock Holmes la lente di ingrandimento, e scoprono di tutto mentre diventano protagoniste della vicenda dell'immagine che prende possesso della realtà e la trasforma. Le donne sono per natura portate a questa scoperta perché, guardando dall'angolo della loro specificità sociale e sentimentale, della loro oppressione storica, sono portate a guardare oltre la realtà evidente, quella delle convenzioni, delle apparenze, del sorriso stereotipato, per scoprire e far scoprire ciò che c'è dietro. Inoltre la scatola magica, pensa Rasy, è fatta per le donne: la Korona, la Graflex, all'inizio sono quasi nascoste, compagne discrete, anche per chi, come Tina Modotti, dapprima modella bellissima, può avvicinarsi a quell'oggetto prima conoscendolo solo passivamente, e poi passando all'azione. Anche Lee Miller è una bellissima che si scansa e diventa fotografa, non fotografata. Cambia posizione con la capriola storica tipica delle donne all'inizio del secolo scorso, passando dallo stato di oggetto osservato a quello di soggetto, primo attore e, definitivamente, artista.
Le fotografe prescelte da Rasy sono ormai icone di fama e di valore mondiale: ma tutte, persino quando la loro vita si è disegnata nell'agio, come quella della di Diane Arbus, per arrivare a usare l'obiettivo come una lancia di luce devono fare un percorso di incertezza, sofferenza, confusione, dipendenza... Insomma, devono pagare per intero il prezzo di essere donna, e per due di loro nemmeno la moneta della sofferenza basterà. Diane Arbus e Francesca Woodman vengono consumate dalla loro confusione fino al suicidio, dopo peraltro aver raggiunto un grande successo tramite avventure mirabolanti, specie nel caso della Arbus. E si ha la stessa sensazione anche per Tina Modotti, che muore giovane in un taxi, come consumata da troppe avventure, troppa rivoluzione, il Messico, il comunismo, i pittori muralisti come Diego Rivera, l'amore divorante e poliedrico.
Anche per le altre l'apprendimento del mestiere è una questione di passione divorante, uomini, nudità, moda, e chi in un modo chi in un altro, chi nella New York più elegante, chi nella San Francisco stravagante, chi nella Parigi più chic, vivono senza freni sia il sesso che la mondanità intellettuale: ambedue sono elementi travolgenti nelle vite che la Rasy esplora con un affetto sconfinato fin dentro il salotto di Gertrude Stein o nello studio di Man Ray, e persino con Fitzgerald ed Hemingway. Il mondo si agita in attesa di ciò che verrà. Vediamo come l'immigrata sofferente e poi super emancipata Dorothea Lange affonda lo strazio del suo piede martoriato dalla polio nella camera oscura e si lancia all'avventura, gioca a una vita intensa e stravagante di cow boy e indiani col marito Maynard Dixon e due figli maschi nella wilderness americana, per poi finalmente imboccare la strada dell'affresco di An American Exodus la depressione americana che il suo amore e nuovo sposo Paul Taylor classifica e nota e lei fotografa.
Il libro di Elisabetta Rasy ci racconta anche come le nostre fotografe siano immerse nel mondo ribollente della cultura di quegli anni, narcisistica, ribelle, spiritosa, inconsapevole dei disastri che alla fine, come nelle foto di Lee Miller, dalla moda vanno a finire nell'esperienza della tragedia ebraica, mentre la sua vita irriverente passa per un matrimonio in Egitto e balugina nuda nella vasca da bagno di Hitler, unica inviato donna a lato dell'esercito americano in Europa. Le nostre fotografe sono una girandola di avventure in cui alla fine si affaccia però sempre la convinzione di dover comunicare una realtà misteriosa che nessuno vede. Per questo Diane Arbus si avventura, nelle sue foto quadrate, a esporre l'estrema stravaganza dei diversi, tema nuovo che diventerà dominante, dai travestiti ai nani alla donna barbuta, ma anche ai lati inattesi dei suoi amici divi newyorkesi, come Germaine Greer o Andy Warhol, nessuno particolarmente contento di come lei li vede.
Norman Mailer ha detto che una macchina fotografica nelle mani di Diane era una bomba nelle mani di un bambino.
Un complimento straordinario su quanto l'immagine possa diventare dirompente se usata da questa fotografa. Così accadde per la fotografia nelle mani delle grandi fotografe donne: una bomba di verità. A volte, difficile da sopportare.
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