Raffaele La Capria è del 1922. Ha compiuto 96 anni. Napoletano trasferitosi prima dei trent'anni nella Capitale che non ha mai più abbandonato, una giovinezza da «femminaro» elegantissimo, Borsalino e pochette, e una delle terrazze più belle di Roma (vi ricorda qualcuno, rivedendo La grande bellezza, 2013, o leggendo il suo La bellezza di Roma, 2014?), ha scritto un romanzo-spartiacque, per sé e la propria generazione, Ferito a morte (premio Strega nel 1961) e poi una serie di piccoli e grandi libri, sempre in bilico tra narrativa e saggistica, che ne fanno l'ultimo grande maestro della nostra letteratura.
È così che può concedersi - lui, e pochi altri in questi anni di scarsa grazia - un viaggio a ritroso nel tempo. Il suo. Ed ecco una nuova raccolta di scritti - Il fallimento della consapevolezza (Mondadori, pagg. 114. euro 18) - di varia occasione ma tutti legati dal filo rosso della memoria. Gli anni della sua formazione (fra i pesanti condizionamenti del Ventennio, prima, e un'ideologia comunista «molto forte negli ambienti intellettuali», dopo). L'improvvisa, «euforizzante» scoperta di Proust, Musil, Kafka, Joyce, Faulkner. L'ambiguo rapporto con la sua Napoli (è duro fare i conti con «il marchio inesorabile della napoletanità»). L'insofferenza per una narrativa italiana molto (anzi: troppo) legata ai confini di una città o di una regione. La propria vita e la propria opera (bellissimo il breve capitolo «Un'autopresentazione») sullo sfondo della Dolce vita (pagine in cui entrano e escono tutti gli amici di un tempo: Flaiano, Peppino Patroni Griffi, Giovanni Russo, Gadda, Maccari...). E, in fondo e sopra a tutto, una crudele riflessione, pensando ai giorni di ieri, su quelli di oggi: «Siamo perduti in una nebbia e dobbiamo con le nostre sole forze crearci dei punti di riferimento che riescano a restituirci il senso dell'autenticità».
Lei scrive che la sua è stata «un'epoca senza maestri», cosa che non le ha permesso di trovare quella «consapevolezza» (come da titolo del libro) che cercava. Perché fu un'epoca senza maestri?
«I maestri erano zittiti dal regime fascista. Croce, Labriola, Salvemini. Non insegnavano e non potevano essere insegnati. Fino ai giorni del liceo, nemmeno conoscevo i loro nomi. Potevi arrivare a loro solo grazie a qualche compagno di scuola più informato. Insomma, il percorso verso l'universo dei Rimbaud, dei Baudelaire, dei Proust, dovevi creartelo in modo quasi clandestino».
Oggi, secondo lei, un giovane scrittore troverebbe dei maestri? Quali possono essere?
«Avviene sempre che tu i maestri un po' li trovi un po' li scelga. Oggi le suggestioni sono numerosissime. Maestri di cultura e di letteratura possono provenire anche da mondi e culture lontanissime».
Nel libro imputa alla narrativa italiana (e alla critica) del suo tempo di essere troppo legata ai confini di una città o di una regione. Di essere un po' provinciale. È ancora così oggi? A un cero punto scrive: «Gli scrittori italiani sono sedentari e casalinghi anche quando viaggiano».
«Ho la sensazione che un certo provincialismo continui a pesare sul nostro orticello italiano. Il ghetto dialettale magari è tramontato, ma un'apertura vera a me sembra una conquista ancora lontana».
Lei dice che abbiamo perduto i legami con le generazioni precedenti. E che «Oggi abbiamo un'ampia conoscenza dei fatti, una vastissima informazione ma tutto questo non si trasforma in cultura». Una considerazione amara.
«Quel processo di fermentazione che trasforma l'informazione, la conoscenza, in cultura è delicatissimo. Purtroppo, non basta disporre della quantità. Più informazione non vuol dire più cultura. I passaggi sono complessi, devono prendere forza anche dall'energia che proviene dalla tradizione. E direi che qui, oggi, siamo carenti».
È molto interessante il suo atto d'accusa (diciamo così...) contro la nostra narrativa post-Novecento: una letteratura manierista, del non-autentico, fredda e artificiosa. Chi sono, se ci sono, gli autori che salva?
«Non ho una lavagna con buoni e cattivi. Dico che la nostra letteratura viaggia oggi su una strada tortuosa, trafficata. Una rappresentazione autentica del mondo è un esercizio delicato, ha bisogno di tutti gli spazi della mente».
Lei sembra non credere agli scrittori che vogliono fare denunce ideologiche. Che vanno lasciate ai politici. Lei dice: «la letteratura non si esprime attraverso il discorso ideologico, ma con il discorso letterario». Cosa pensa degli scrittori «impegnati» e dell'impegno in letteratura?
«Ciascuno è libero di dosare gli ingredienti come vuole. Dico però che letteratura e ideologia sono mondi che non si appartengono e trovo ancora peggiore il rischio che la prima diventi lo strumento della seconda. Qualcuno tenta razionalmente di ridurre l'interpretazione della vita a ideologia. Ma la vita sfugge, è molto di più. Cogliere questo di più, è il compito della letteratura».
Già quando uscì Ferito a morte, nel 1961, era preoccupato della «spinta irresistibile a produrre» dell'industria culturale. E oggi è anche peggio. Cosa pensa del fatto che si pubblichi così tanto, e si legga così poco?
«Purtroppo ciò che avviene è la conseguenza inevitabile di ciò che allora mi preoccupava».
Come è cambiato il mondo dell'editoria dagli anni Sessanta a oggi? Quali sono le qualità che si sono perse, e i difetti che si sono aggiunti...
«L'editoria ha una sua legittima finalità commerciale. Da editore, puoi fare cultura se hai il clima e gli autori in grado di produrla. Nei tempi di magra, si sopperisce con la quantità».
Lei ha sempre ottenuto grandi successi sia per i romanzi sia per i saggi.
Cosa pensa del successo della non fiction novel, cioè dei libri che affrontano la cronaca/realtà con la scrittura romanzesca?«Truman Capote col suo A sangue freddo ha insegnato tanto. In fondo scrivere vuol dire contemplare e giudicare la vita. L'importante è tenersi a una certa distanza, così da vederla meglio».
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