La sinistra? Non volle regolare i conti con Stalin (e Kruscev)

Uno studio svela come l'intellighenzia italiana non riuscì a vedere le lotte di potere dietro il XX Congresso del Pcus

La sinistra? Non volle regolare i conti con Stalin (e Kruscev)

Venne pubblicato il 4 giugno 1956 dal quotidiano americano The New York Times il testo integrale del cosiddetto «rapporto segreto» presentato da Kruscev nella notte fra il 24 e 25 febbraio 1956 in una «seduta a porte chiuse» dopo che i lavori del XX Congresso del Pcus erano stati già conclusi con l'elezione degli organi dirigenti e la riconferma di Kruscev alla carica di segretario generale del partito. Lo stesso quotidiano, per la verità, aveva già fornito, verso la fine di marzo, qualche anticipazione sui contenuti del documento basandosi su una relazione dell'ambasciatore americano in Urss. E, da quel momento in poi, era scattato un meccanismo che, tra smentite e conferme, aveva avviato un terremoto nella sinistra internazionale.

Palmiro Togliatti, il quale, stando a una testimonianza di Eugenio Reale, aveva avuto a disposizione il testo del rapporto per un'intera notte, parlandone con gli altri componenti della delegazione italiana al XX Congresso, aveva tagliato corto: «Non c'è nulla. Panni sporchi, pettegolezzi». E, rientrato in Italia, aveva dovuto barcamenarsi di fronte ai giornalisti con dichiarazioni generiche sul congresso le cui discussioni, disse, avrebbero dominato «la scena politica per un lungo periodo di tempo». Aveva, pure, aggiunto con un impeto di colorita oratoria polemica: «Le menti capaci e gli animi onesti lo hanno già compreso e sempre più lo comprenderanno i popoli. Gli sciocchi e i venduti latrano e continueranno a latrare; ma di essi la storia non terrà conto». Aveva cercato, insomma, di non entrare nel merito dei temi la denuncia del culto della personalità e dei crimini di Stalin sollevati in quella occasione e che, ora, finivano per creare disorientamento e suscitare discussioni non soltanto nelle file dei partiti comunisti ma anche della sinistra più in generale. Ma, ben presto, anche incalzato da Pietro Nenni, avrebbe dovuto prendere posizione con una celebre intervista pubblicata sulla rivista Nuovi Argomenti e parlare di «gravi errori» di Stalin, di «violazione della legalità socialista», di «degenerazione burocratica», di «applicazione di mezzi istruttori illegittimi e moralmente ripugnanti», sostenendo tuttavia che, malgrado tutto, il regime sovietico aveva conservato «il suo fondamentale carattere democratico».

Che i comunisti dei paesi occidentali, cresciuti all'insegna del principio fideistico di una obbedienza assoluta e nell'adorazione della figura e del mito del «piccolo padre», dovessero trovarsi in difficoltà di fronte alla condanna del culto della personalità e all'annuncio della «destalinizzazione», è comprensibile. Ma, quello che era accaduto in Unione Sovietica con il XX Congresso del Pcus e con il «rapporto segreto» di Kruscev era stato, in realtà, un capitolo della lotta di successione scatenatasi dopo la morte del dittatore nel 1953. Il recupero di Lenin in opposizione a Stalin sottendeva l'idea che la dittatura staliniana, almeno a partire dalla metà degli anni Trenta, fosse stato frutto della «degenerazione» del sistema e non già connotato intrinseco dello stesso. Un grande storico francese, François Furet, ha dimostrato bene questo punto facendo notare come, durante gli anni del potere krusceviano, l'Unione Sovietica sarebbe passata dallo «stadio totalitario allo stadio poliziesco» senza, peraltro, che questa transizione significasse un abbandono o una modifica dei presupposti ideologici del potere comunista.

Gli effetti del XX Congresso del Pcus si fecero sentire con forza all'interno dei partiti comunisti occidentali anche se, nella maggior parte dei casi, vennero riassorbiti dalla logica del realismo politico anche a fronte dell'evoluzione della politica estera sovietica in quel torno di tempo. Presso gli ambienti intellettuali legati, in Italia, all'eredità gobettiana e alla tradizione azionista i temi emersi dal «rapporto segreto» di Kruscev ebbero, invece, un maggiore impatto e generarono sorpresa e spaesamento soprattutto dal punto di vista ideologico. Tutto ciò emerge con chiarezza dalla lettura di un bel volume a cura di Antonio Maria Carena e intitolato Il rapporto Chruëv. La denuncia del culto della personalità (Aragno, pagg. 214, euro 15): un volume che comprende sia il testo del rapporto puntualmente e finemente commentato da uno studioso antistalinista proveniente dal comunismo come Angelo Tasca, sia alcuni interventi sul tema del «culto della personalità» scritti, all'epoca, da Leo Valiani, Riccardo Bauer, Franco Venturi e Aldo Garosci. Questi intellettuali avevano condiviso quella che un «azionista pentito» come Arrigo Benedetti avrebbe definito «l'illusione democratica» e, dopo la fine del Partito d'Azione, si erano impegnati a vario titolo nel progetto di riformare o, comunque, rinnovare la cultura politica della sinistra italiana. La pubblicazione del «rapporto segreto» di Kruscev, la condanna del «culto della personalità», la denuncia dei crimini dello stalinismo erano tutti fatti che, nel loro insieme, li mettevano in difficoltà perché ponevano loro il problema di individuare una «cultura di governo» per la «sinistra democratica» che potesse evocare un modello alternativo a quello rappresentato dall'esperienza totalitaria della Russia staliniana. Il loro imbarazzo è evidente, per esempio, nelle pagine di Leo Valiani il quale, dopo aver affermato che si poteva «rimproverare a Stalin di aver abusato delle sue vittorie, ma non certamente di aver vinto le battaglie del suo tempo», lasciava intendere come Lenin fosse stato «interamente immune» da degenerazioni e abusi. O anche in quelle di Aldo Garosci che, recepita la differenza tra «politica di Stalin» e «tolleranza» di Lenin, si poneva il problema di mantenere insieme «il dogma del carattere socialista della rivoluzione e della costruzione staliniana». Dal canto suo, Riccardo Bauer ribadiva la «definitiva e indiscutibile importanza storica della rivoluzione russa» che, malgrado «aspetti negativi, evidenti per quanti conoscono la fecondità delle libertà democratiche», era «una reale conquista di umana civiltà». E aggiungeva che gli avvenimenti succedutisi dopo la morte di Stalin rispondevano a un «diffuso fermento di libertà» che circolava a dimostrazione della «vitalità della evoluzione compiuta dal paese, la vitalità della sua rivoluzione».

La verità è che nessuno di questi intellettuali, abbeveratisi alla fonte dell'utopia, aveva la capacità di percepire il fatto che le denunce del «rapporto segreto» di Kruscev e del XX Congresso del Pcus erano solo l'epifenomeno di una dura lotta di potere all'interno dell'Urss.

E, ancora, che i crimini di Stalin non erano, già, il frutto di una degenerazione del sistema politico causata dalla mente tarata del dittatore, ma piuttosto l'esito dell'intransigentismo rivoluzionario di Lenin deciso a spazzare via senza pietà gli ostacoli che si frapponevano ai «passi cadenzati del battaglioni ferrei del proletariato».

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