Sir Naipaul, il fustigatore dei nemici dell'Occidente

Sono in molti a domandarsi se una «società aperta» all'ultimo stadio quale la nostra sia saggia o decadente. Se un'apertura senza riserve nei confronti dell'islam (specie quando si è intolleranti con se stessi) rappresenti una forza o una rovina. V.S. Naipaul, premio Nobel per la letteratura nel 2001, di cui è appena uscita per Adelphi una nuova traduzione del romanzo Sull'ansa del fiume (pagg. 327, euro 26), testo del 1979 pubblicato in Italia per la prima volta nel 1982 da Bompiani, non ha dubbi. Basti pensare a ciò che ha scritto in questi decenni, denunciando il pericolo di un islam che «negli ultimi tre o quattro secoli è rimasto congelato nelle rivelazioni del Corano e degli hadith del VI secolo» e che «nega il valore e addirittura l'esistenza di civiltà che hanno preceduto le rivelazioni del Corano», portando avanti un'idea di «fede che abolisce la Storia». Perché «chi si converte deve annientare il suo passato, la sua storia. Deve dire che la sua cultura d'origine non esiste, che non importa». Ecco spiegata la distruzione di monumenti e siti archeologici. Quanto al cosiddetto Stato islamico, da lui ribattezzato «Quarto Reich», proteso com'è verso un olocausto contemporaneo (l'omicidio di sciiti, ebrei, cristiani, copti, iazidi), «deve essere visto come la più potente minaccia dai tempi del Terzo Reich» e «il suo annientamento militare deve essere oggi l'obiettivo di un mondo che tiene alle proprie libertà ideologiche e materiali». L'islamismo è semplice, non si stanca di ripetere il premio Nobel di Trinidad. «Ci sono regole cui obbedire, una guerra santa contro la civiltà, un paradiso dove andare da martire (...) nessuna fedeltà al Paese che ti ha dato una libera istruzione e delle prestazioni sociali. Una pistola, una preghiera e la semplicità di una caverna. Ecco perché partono: sono dei volontari della morte».Naturalmente, con idee simili Naipaul si è guadagnato una pessima reputazione quasi ovunque. In Inghilterra, dove vive, la nomea di «flagello dei liberal» e «musone reazionario». L'intellettuale palestinese Edward Said lo definì «un avvoltoio». A Trinidad, sua patria, lo accusano di «snobismo». La sua colpa? Aver scritto che «non c'è niente di più autodistruttivo del razzismo dei negri». Un ex amico, Paul Theroux, gli rimprovera di detestare il genere umano. Derek Walcott, poeta caraibico, anch'egli premio Nobel, gli ha affibbiato il nomignolo di «signor Crepuscolo». Nemmeno in India, terra dei suoi avi, è visto di buon occhio, a causa di libri come India: un milione di rivolte, del 1990. E naturalmente è detestato dalle comunità islamiche di mezzo mondo. Ma più che contro l'islam egli pare battersi contro una sua lettura edulcorata, politicamente corretta. Certo, coi seguaci di Maometto non è mai stato tenero: basta pensare a Fedeli a oltranza. Un viaggio tre i popoli convertiti all'Islam, saggio del 1998, frutto di un soggiorno compiuto dall'autore nel 1995 in quattro Paesi islamizzati (Indonesia, Iran, Pakistan e Malaysia), col quale ha inteso mettere sotto gli occhi di tutti lo stato di barbarie in cui precipitano le regioni del mondo in cui si radica il Corano.Di altro genere è Sull'ansa del fiume, ritradotto da Valeria Gattei, che narra la vicenda del giovane Salim, indiano di fede musulmana che lascia famiglia e agi per inseguire un oscuro richiamo che lo condurrà nel cuore dell'Africa nera, tra foreste primordiali pullulanti di spiriti dove si aggirano le presenze protettrici degli antenati, «torrenti nascosti e impervi, canali infestati da zanzare e solcati da chiatte, buganvillee rigogliose, tramonti velati di nuvole lungo le rapide». Destinazione, una decaduta città (identificabile con Kisangani, ex Stanleyville, nel cuore dell'ex Zaire) posta sull'ansa di un grande fiume (il mai nominato Congo), devastata da guerre tribali, dove gestirà un emporio, prendendo parte ai fermenti di quegli anni, caratterizzati dall'ascesa di un nuovo leader politico, il «Grande Uomo», nel quale è riconoscibile il dittatore Mobutu, capace di generare l'illusione di una «nuova Africa», moderna, in ascesa. Un omaggio a Conrad (come lui straniero convertito alla cultura inglese) e al suo capolavoro Cuore di tenebra, ambientato negli stessi luoghi e pervaso da un'analoga scrittura ipnotica. Un romanzo abissale sull'Africa. Un continente dove, «tolti i capi e i politici, vige una democrazia molto semplice: si è gente di villaggio, tutti quanti». Dove tutto ciò che si sa del proprio passato lo si è appreso dai libri scritti dagli europei (i quali però hanno iniziato gli africani alla menzogna). Dove «per strada ti urtano per dimostrare che non gli importa niente di te» e si è sempre vissuti con l'idea che gli uomini fossero prede. Una terra pervasa dal «terrore che provano gli africani di fronte ad altri africani sconosciuti» e che non fa differenza tra giusto e ingiusto, semplicemente perché «il giusto non esiste».Dopo quel romanzo, ma ancor più dopo La maschera dell'Africa, del 2011, ecco rinnovarsi le accuse di razzismo. «Il razzista V.S. Naipaul colpisce ancora». A bersagliarlo, Robert Harris, l'autore di Fatherland, per il quale Naipaul non si è fatto scrupolo di denigrare un intero continente. È il prezzo che paga chi parla chiaro.Vidiadhar Surajprasad Naipaul, Vidia per gli amici, ha 83 anni e vive nella contea del Wiltshire, nel sud dell'Inghilterra, dove si trasferì all'età di diciott'anni dall'isola di Trinidad, nei Caraibi, per studiare a Oxford, e dove ha pubblicato i suoi primi romanzi (l'esordio è del 1954). Nato il 17 agosto del 1932, discende da indiani di casta braminica giunti sull'isola nel XIX secolo per lavorare nei campi di canna da zucchero.

Dopo una vita costellata di viaggi in giro per il mondo (da cui sono nati molti dei suoi libri), nel 1990 è stato nominato Cavaliere dalla regina Elisabetta. E nel 2001 è arrivato il premio più ambito per uno scrittore.Chi non risparmia critiche all'Occidente, si legga i libri di Naipaul. Ne uscirà cambiato.

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