L'amore platonico ha sempre goduto di buona stampa. Perché? Perché tutti, prima o poi, si sentono Paolo e tutte si sentono Francesca, tutti si sentono Friedrich e tutte si sentono Lou, tutti si sentono Hans e tutte si sentono Clawdia. Non è necessario chiamarsi Alighieri, Nietzsche o Mann, per saperlo (ma per scriverlo come lo scrivono loro, sì). Tuttavia l'amore platonico originario, fondativo, seminale, forse non è morto come un amore a metà, come un amore irrealizzato; al contrario, è nato così, in partenza declassato al rango di amicizia. Si chiama «platonico» perché Platone ci ha costruito sopra un gran teatro intellettuale, com'era solito fare con tutte le sue idee. Ma spesso dimentichiamo che dovrebbe chiamarsi «socratico». Ce lo ricorda un libro dal titolo un po' ruffiano (l'amore è ruffiano per natura): Socrate innamorato (Utet, pagg. 192, euro 15, traduzione di Chiara Baffa, dal 5 maggio nelle librerie). Lo ha scritto Armand D'Angour, londinese, 61 anni, molti dei quali dedicati allo studio della classicità. E che cosa c'è di più classico dell'amore socratico?
Per sommi capi, e detta con crudezza per nulla classica, né con l'eleganza accademica ma coinvolgente di D'Angour, la storia è questa. Ad Atene, verso la metà del V secolo prima di Cristo, in casa di Pericle, il leader incontrastato del Pd (Partito democratico) e padrone di tutta la città, tiene salotto la sua compagna Aspasia, molto bella, molto brillante, molto libera (quasi tutte le fonti antiche ne parlano senza mezzi termini come di una escort d'altissimo bordo) e soprattutto molto intelligente. Fra un drink e una chiacchierata, nel circolo di Aspasia si fa notare un suo coetaneo venticinquenne di nome Socrate: figlio di uno scultore, è di bell'aspetto, ha modi garbati e una mente finissima. Come soldato si è già fatto onore a Coronea, e anche nell'agone filosofico è un emergente. Il caso ha voluto che proprio a Coronea sia morto Clinia, padre di un frugoletto di tre anni, Alcibiade, e che, come da volere del defunto, il piccolo orfano sia stato affidato a Pericle. Il caso vorrà poi che nel 432, durante la battaglia di Potidea, Socrate salvi la vita al diciottenne Alcibiade, con il quale divideva la tenda...
L'artificio retorico dei puntini di sospensione è superfluo, per chi abbia qualche rimembranza del gossip filosofico alimentato da Platone & Co. (nonché del darsi di gomito fra i banchi del liceo). Ma il legame fra il Socrate maestro e l'Alcibiade allievo non sarebbe potuto nascere, senza il consenso di Pericle e della di lui partner, Aspasia. A proposito di quest'ultima, eccoci al sodo. Nel Simposio di Platone, meravigliosa commedia dal tono quasi scespiriano e dall'ambientazione conviviale in cui il tema messo sul tavolo chez Agatone, verso il 416 a.C., è quello dell'Amore, Socrate, ultimo a prendere la parola, innesta la propria dottrina dell'Amore su quella di una tale Diotima, sacerdotessa di Mantinea. Ebbene, il primo e unico al mondo a citare questa Diotima è Platone. Zero riferimenti, zero tracce, al netto del Simposio. Allora, come non risalire a trent'anni prima, a un altro simposio in casa di Pericle, dove a dibattere furono, occhi negli occhi e cuore a cuore, Socrate e Aspasia?
Se lo sono chiesto innumerevoli studiosi, se lo chiede, pur in maniera velata, il prof D'Angour e ce lo chiediamo anche noi. Tutto quadrerebbe: la coppia Pericle-Aspasia diventerebbe un triangolo con l'entrata in scena di Socrate, poi, con Alcibiade adulto, il triangolo diventerebbe un quadrilatero (raddoppiando la gelosia di Pericle, il quale si vedrebbe sorpassato da Socrate sia nelle grazie di Aspasia, sia in quelle di Alcibiade). Infine, troverebbero spiegazione le parole di Socrate nel climax tragico della sua fine quando, condannato a morte dopo la triplice accusa (non riconoscere gli dèi cui Atene è devota, introdurne altri, corrompere i giovani) e costretto a uccidersi bevendo cicuta, afferma: «dobbiamo un gallo ad Asclepio. Pagate questo debito e non dimenticatevene» (Fedone). Sacrificare ad Asclepio era pratica comune dopo una guarigione. E Socrate, morendo, guarirebbe finalmente dalla malattia dell'Amore. Quel morbo che avrebbe contratto da lei, Aspasia alias Diotima, la maestra della quale s'era innamorato da giovane.
Il correttissimo (non politicamente, ché sarebbe un difetto, bensì metodologicamente) D'Angour evidenzia in corsivo le poche pagine romanzate del suo libro in cui affronta il mistero dell'amore socratico indagando in particolare gli anni della formazione del filosofo e facendo balenare ai suoi allievi di un seminario tenutosi a Oxford l'idea di «un film sul Socrate sconosciuto». E in corsivo, appunto, scrive: «Per motivi religiosi gli ateniesi ritardano la sua esecuzione e Socrate trascorre alcuni giorni in carcere, durante i quali gli amici e i familiari possono andare a trovarlo per l'ultima volta. Forse uno di questi amici è proprio la vecchia Aspasia, ormai sempre più spesso vittima di lunghi periodi di malattia». E, subito dopo: «Platone, come anche Critone, avrà saputo di certo a chi stesse pensando Socrate nello scioglimento di questo voto, ma ne omette il nome. Forse perché l'oggetto del voto è proprio Aspasia, la donna che ha sempre amato e ammirato, le cui lezioni di eloquenza e la cui compagnia intellettuale ha ricercato anche negli anni più avanzati».
Nel 399 a.C., quando muore Socrate, sono passati trent'anni dalla morte di Pericle, falciato dalla peste. Anche Alcibiade è morto, nel 404, dopo aver tradito a più riprese la sua patria, dove da poco è stata restaurata la democrazia, archiviati in fretta e furia i Trenta tiranni. Di lì a pochi mesi se ne andrà anche Aspasia. Si chiude quindi una lunghissima storia di amori. Come dicevamo all'inizio, forse quello più tormentato lo provò sulla propria pelle Socrate. Forse Aspasia, di fronte all'alternativa fra potere e amore scelse il primo, dunque Pericle. Sicuramente lei non gradiva il disimpegno in politica di Socrate, pur riconoscendone le motivazioni.
E forse la first lady di Atene, in un giorno imprecisato verso la metà del V secolo prima di Cristo, prendendo da parte il filosofo in salotto, mentre gli altri si buttavano sugli aperitivi, gli disse la solita frase che dicono le donne agli uomini che fanno loro la corte e dai quali sono attratte, sì, ma fino a un certo punto, non abbastanza da perderci la testa: «È meglio se restiamo amici».Sapere che uno con il cervello di Socrate ci ha messo più di quarant'anni per digerirla, sarebbe consolante per tutti noi ometti normali.
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