Gadiel Gaj Taché aveva cinque anni quando il terrorismo palestinese lo privò del fratello Stefano di due anni. Potete vedere al Ghetto di Roma, o «in Piazza» come dicono gli ebrei romani, la lapide che intitola a suo nome lo slargo fra Via del tempio e Via Catalana. Gadiel racconta nel suo libro Il silenzio che urla appena uscito per la Giuntina anche questa: per arrivare a legittimare del tutto la memoria del suo fratellino e riconoscerlo fra le vittime del terrorismo in Italia, ci sono voluti oltre trent'anni dall'attacco del 9 ottobre 1982, quando nel 2012 la buona coscienza del presidente Napolitano ha stabilito che si trattava di una ferita per gli italiani tutti. Ce n'è voluta; e ce n'è voluta anche a Gadiel per ritornare a vivere dopo l'attacco che ferì a morte il piccolo Stefano e quasi uccise anche lui e il resto della sua famiglia, facendo 37 feriti.
Ricordare, è un processo molto selettivo: negare la memoria o distorcerla, quando si tratta di ebrei uccisi, è una storia vecchia e sperimentata. Sulla lapide Gadiel si chiede il perché, anche se dentro di sé lo sa bene, non c'è scritto che è stato un commando terrorista palestinese a colpire.
Andando al Tempio per la benedizione ai bambini per la festa di Shemini Atzeret, tutto era lieve e giocoso, come nella tradizione ebraica. Alla fine di quel giorno in cui i bambini si mettono i vestitini belli, la famiglia Taché contava uno dei due bambini ucciso, e gli altri tre membri feriti gravemente.
Gadiel fa riemergere da nulla le parole e i giochi dell'infanzia di Stefano. E ci spiega l'impossibile condizione di sopravvissuto, che è un essere umano incatenato al passato, che non può più credere nella vita, che si sente depresso, colpevole, timoroso, catturato in una rete. Il trauma fisico micidiale che lo ha tenuto per mesi fra la vita e la morte, e poi preda di strazi ospedalieri, causa un post trauma che riemerge instancabile nel presente finché non si individua un sentiero d'uscita. Per Gadiel è stata la musica, la scoperta di questo mondo parallelo lo ha preso per mano, la sua canzone Little angel, che mi ha fatto ascoltare su mia richiesta, è la chiave che lo ha condotto fuori dal corridoio buio.
In Israele ho conosciuto a centinaia persone che hanno avuto il destino sconvolto dal terrorismo, durante l'Intifada era addirittura raro che qualcuno non avesse un parente, un amico, un vicino, qualcuno, che aveva vissuto personalmente quel destino. Qui, Gadiel ci porta dentro quello speciale universo in cui c'è il prima (i vestiti, il cibo, le ultime paradossali paroline gioiose) e il dopo: sangue, dolore, il freddo dell'ospedale sotto la tenda a ossigeno, la terribile rivelazione alla madre che uno dei suoi figli è morto con parole inavvertite: «Dov'è la mamma del bambino ucciso?».
Il libro di Gadiel si incarica del recupero minuzioso degli ultimi gesti, sorrisi, parole di Stefano che erano anche i primi della sua vita stroncata. Fra i feriti quasi a morte anche Emanuele Pacifici padre di Riccardo e anche Daniela, la dolcissima madre di Gadiel e di Stefano. Gadiel si ritrovò all'ospedale piccolo e solo in condizioni fisiche molto gravi, col pericolo di perdere la vista e di bruciarsi la psiche, la sua capacità di vivere.
Il libro è in parte la ricostruzione di una vita i cui giorni sono stati resi carta straccia dal terrore. Ma c'è anche la nascita di un nuovo Gadiel che si carica di un compito storico: quello della memoria e della ricostruzione veritiera dell'attentato.
Il popolo ebraico ha subito svariate persecuzioni fondamentali: la maggiore di gran lunga è stata certo la Shoah, ma anche i pogrom di massa nell'est europeo, il bando sociale e religioso e le stragi nel mondo islamico, la criminalizzazione secolare dell'antisemitismo europeo e quella del mondo cristiano con i roghi e l'esilio come quello spagnolo. Oggi la persecuzione evidente consiste nel terrorismo accompagnato dalla diffamazione di Israele. Una persecuzione di massa, a tutte le latitudini, in Israele o nelle sinagoghe o nelle scuole americane, francesi, belghe, inglesi, tedesche.
Il Ghetto, dopo i camion nazisti del 16 ottobre del '43 , vede nel 1982 l'assalto dei terroristi palestinesi. Nella targa che finalmente, dopo anni di battaglia riconosce il fratello come vittima del terrorismo, questo non c'è scritto. Gadiel si è immerso, dolorosamente, nella storia dell'attentato: nel nome di Stefano, trova il coraggio di avventurarsi nella sua Shoah, cerca nei documenti finalmente desecretati e nei vecchissimi giornali. Cerca la verità che, sola, costruisce la memoria. Ed è una verità scioccante.
Il libro di Gadiel ha dunque due caratteristiche molto importanti: la descrizione della condizione umana specifica di vittima del terrore. E l'indagine sul mistero che circonda i motivi per cui l'attentato non è stato evitato. L'unica cura possibile, per Gadiel, è la verità, per quanto brutta possa essere. E qui la storia è disgustosa veramente. Francesco Cossiga lo confermò in una famosa intervista a Menachem Gantz, del quotidiano israeliano Yediot Aharonot certificando «l'esistenza di un accordo sulla base della formula tu non mi colpisci e io non ti colpisco tra lo Stato Italiano e una organizzazione come l'OLP e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina». Cioè, scrive Taché, gli ebrei «negli anni '70 e 80 sarebbero stati considerati cittadini di serie B che potevano essere sacrificati in nome dell'immunità del resto del Paese». Cioè, riporta Taché, Cossiga affermò che «in cambio della mano libera in Italia i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e l'immunità di obiettivi italiani al di fuori del paese da attentati terroristici, fin tanto che tali obiettivi non collaborassero col sionismo e con lo Stato d'Israele». Per questo non fu approntata nessuna difesa del Tempio, nonostante i tempi estremamente pericolosi. Siamo in un periodo denso ovunque in Europa di slogan e di terrorismo antiebraico, punteggiato a Roma dal mostruoso episodio della bara gettata da un corteo CGIL sull'ingresso della storica sinagoga romana, seguito dalle gelide parole di Luciano Lama sulla vicenda. L'ignobile trionfalismo dell'accoglienza in Parlamento ad Arafat, l'acritica attribuzione del massacro di Sabra e Chatila compiuto da milizie cristiane maronite trasferito sulle spalle di Israele dall'opinione pubblica, le continue condanne internazionali tipiche della Guerra Fredda, il crescere del mostruoso fenomeno della «nazificazione del sionismo» di cui parla Robert Wistrich. Questo e altro fanno da sfondo alla scandalosa assenza sia di prevenzione sia di protezione alla sinagoga nei giorni critici.
Si arriva così a toccare i tanti perché dell'antisemitismo, che oggi ha il suo aspetto più evidente nell'odio per Israele. Gadiel si domanda come mai gli ebrei di tutto il mondo, anche quelli romani, siano identificati con Israele solo per farne una forma di colpa. Ma si chiede anche come sia possibile che i liberali e i difensori dei diritti umani siano attratti nella rete dell'antisemitismo. La ricerca di Taché ha svariati precendenti nel lavoro di studiosi come Giordana Terracina, per esempio, che ha avanzato l'ipotesi assai attendibile di un «lodo» europeo oltre che di un «lodo Moro». Gadiel si interroga sull'identità e sulla sorte degli assassini, e dopo averne identificato la variegata appartenenza al Gruppo di Abu Nidal ma anche all'OLP, si fa documentate domande sul perché l'unico responsabile, catturato e condannato all'ergastolo, abbia vissuto indisturbato nella Libia di Gheddafi, consegnato ai libici alla metà degli anni Ottanta.
Little angel, la canzone scritta per il piccolo Stefano, è un dolce segnale di forza, un segnale di come si può sopravvivere e vincere la peggiore di tutte le prepotenze contemporanee, il terrorismo. Il popolo ebraico del Ghetto, al funerale di Stefano, rifiutò la presenza delle autorità, accettando solo gli amici (Spadolini e Pannella) che si erano indignati per l'accoglienza riservata ad Arafat in parlamento. Israele lo sa benissimo: gli ebrei possono difendersi solo contando sulle proprie forze. L'antisemitismo di oggi in questo differisce da quello di ieri: oggi abbiamo lo stato d'Israele a difendere gli Ebrei, per la prima volta nella storia.
Per questo, mi permetto di sussurrare a Gadiel che deve essere contento che gli ebrei italiani siano identificati con Israele. Perché sono un popolo forte. Come lui, che vive e canta nonostante quello che gli è successo. Ora ha anche scritto un bel libro.
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