Storaro, una vita tra film e immagini "Scrivo con la luce"

A Roma una mostra dedicata al fotografo da Oscar Vittorio Storaro, a cui Coppola disse: "Vittò, pensace tu"

Storaro, una vita tra film e immagini "Scrivo con la luce"

Ti aspetti il solito trombone del cinema romano, che si crede Dio soltanto perché, da artigiano esperto, ha condiviso il set con Bertolucci. Io, io, io, «famo» e «dimo». Tutto un atteggiarsi, mettendo smalto sul nulla. Invece Vittorio Storaro, il mago della luce che in mezzo secolo di carriera ha collezionato tre premi Oscar e innumerevoli riconoscimenti, è un illuminato non privo di umiltà (non di modestia, cosa diversa), come si conviene ai Maestri autentici. Bianco dalla testa ai piedi, vestito al modo della stilista Laura Biagiotti, ecco un altro leone ottantenne pronto a condividere le grandi prede intellettuali che ha fatto sue, battendo le piste più difficili dello studio, della ricerca, dell'equilibrio degli elementi.

Dove lo trovi, nell'attuale panorama capitolino, un artista che afferma, deciso: «Un grafos non è un lògos» volendo significare che un segno scritto non è la parola e che lui, quindi, dipinge con la luce e non fa cinematografia e basta, come ai tempi dei fratelli Lumière. «Io scrivo con la luce», spiega, illustrando la mostra Vittorio Storaro. Scrivere con la luce, di scena fino a novembre a Palazzo Merulana, nella via del «Pasticciaccio brutto» di gaddiana memoria.

L'esposizione foto/cinematografica, dove lo spettatore capisce quanto Caravaggio abbia influenzato l'immaginario visivo di Storaro, che ieri ha generosamente spiegato il proprio viaggio figurativo, tra Magritte e L'ultimo imperatore, Rousseau «il Doganiere» e Apocalypse Now, è una narrazione per immagini fisse. Composte tra loro in doppia impressione, «escamotage» caro a quest'amante della penombra, che adesso fa tremare la Siae. «Perché noi che illuminiamo la scena, siamo co-autori dei registi. Purtroppo, i cineasti americani vogliono essere padroni del set: perciò litigo per il diritto d'autore internazionale», dice l'indomito, che fa sempre la sua proposta, mentre si gira un film.

Ai tempi di Ultimo tango a Parigi (1972) per lui Parigi doveva essere arancione. «Devo conoscere il significato dei colori, devo studiare. Mi sento ignorante», disse alla giovane moglie, che lo richiamò all'ordine con un laconico: «Vittò, ci abbiamo due bambini, la casa in affitto...». Fu a quel punto che Storaro capì: sarebbe stato un eterno studente. In mezzo secolo di fotografie la mostra di Palazzo Merulana va dal 1968 al 1994 si ripercorre un periodo di vita molto preciso. Dalla povertà iniziale della famiglia, col papà che lavorava alla Lux Film e Vittorio che, a 11 anni, spazzava il pavimento d'un laboratorio fotografico per arrotondare, ai grandi incontri decisivi con le star di Hollywood: Woody Allen, Francis Ford Coppola, Tony Palmer, Michael Apted. «A Vittò, pensace tu», pare gli abbia detto Coppola, che, passando a un inglese scandito, per farsi meglio capire, gli spiegò come Apocalypse Now non fosse un film sul Vietnam, ma un'opera ispirata a Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Con Bertolucci, altra agnizione col Conformista (1970), visualmente ispirato al mito della caverna di Platone, con gli spettatori prigionieri e il fuoco-proiettore. «Io 22 anni, lui 23. Lui scriveva con la macchina da presa: non avrebbe mai potuto superare il padre poeta, con la poesia scritta. Io scrivevo con la luce», racconta, mostrando il parallelismo luce/ombra tra il film e La vocazione di San Matteo di Caravaggio. C'è sempre, comunque, la sovrapposizione dell'energia artificiale su quella naturale, con atmosfere oniriche molto personali.

«Ai giovani dico: non perdete il treno della conoscenza. A 16 anni mi sono iscritto al Centro sperimentale e a 18 tentai il concorso, non avendo l'età. L'ho vinto e c'erano solamente tre posti. Prendevo tre tram, per arrivare a scuola.

Mio padre chiese aiuto all'ingegner Portalupi, per farmi assumere come quarto assistente su un set. E ricevetti il più bel no della mia vita. Così, ho studiato fotografia», rammenta il pittore della pellicola il cui stile è simbolo di conoscenza.

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