A metà percorso della Festa del cinema, l'attrice americana Dakota Fanning illumina la scena con la sua bellezza naturale. Bionda platino, pelle di luna, un abitino fucsia da collegiale in gita, la più grande delle sorelle Fanning - Elle, altrettanto brava, ha 19 anni; Dakota ne ha 23 - presenta il drammatico Please Stand By, film indipendente dell'australiano Ben Lewin. Ospite d'onore della sezione Alice nella città, dedicata ai più giovani, la diva della saga Twilight, precoce rivelazione dello star-system accanto a Sean Penn (Mi chiamo Sam) e diretta da Steven Spielberg ne La guerra dei mondi, a fianco di Tom Cruise, stavolta si cala in una parte difficile e intensa. Quella di Wendy, ragazza autistica che lavora in un panificio, ma che preferisce mollare le sue sicurezze e la sua casa di San Francisco, per partecipare a un concorso di sceneggiatura a Los Angeles. Con un soggetto di 500 pagine su Star Trek, la sua fissazione.
Nel film, Star Trek è elemento trainante della storia, anche a livello emotivo. Guardava la serie, da piccola?
«La guardavo con mio nonno e ricordo che mi piaceva. Ma non posso dire d'essere una fan allo stesso modo in cui lo è Wendy! Non so se nella mia vita esista qualcosa di paragonabile a quanto Star Trek rappresenta per il mio personaggio: per lei è un traduttore simultaneo dei suoi sentimenti. Magari, anch'io avrei bisogno di qualcosa del genere, che mi apra verso il mondo nella stessa misura».
È sotto i riflettori da quando aveva due anni: per seguire la carriera, ha perso qualcosa della sua infanzia, o della sua spensieratezza?
«Ho sempre affrontato il mio lavoro come un gioco. E amo fare quel che faccio. In realtà, ho preso soltanto il lato positivo dell'avere successo presto: a 9 anni, ho vissuto mesi a Città del Messico; poi, a 14, sono stata tre mesi a Hong Kong. Imparando ogni volta culture, lingue e tradizioni diverse: sono grata a tutto ciò. Non è che tutti i giorni penso a quanto sono famosa. Ho una bella famiglia, amici cari fuori dal mio ambiente e conduco una vita comune. Questo mi consente di restare in equilibrio».
Cosa le ha insegnato l'interpretazione di Wendy?
«Mi ha insegnato, o, per meglio dire, ricordato qualcosa che già sapevo. Ho incontrato diversi giovani affetti da autismo e ho cercato d'imparare da loro, di capire quali fossero le loro vite, ma anche i loro interessi, i loro trionfi, le passioni e le battaglie. Ho imparato che nessun autistico può essere accostato a un altro. L'autismo è solamente una parte di quello che Wendy è davvero».
In questi giorni si parla molto del caso Weinstein e delle molestie sessuali subite da alcune attrici: che cosa pensa a riguardo?
«Personalmente, non ho subito assalti sessuali. Però riconosco quanto sia importante parlare di questi temi. E' importante che le donne facciano sentire la loro voce. Le donne devono avere potere. E tra di loro devono sviluppare una sorellanza».
Laureata alla New York University, con una tesi sulla rappresentazione delle donne nelle arti, ora si appresta a portare sullo schermo il romanzo di Sylvia Plath La campana di vetro, diretta dalla collega Kirsten Dunst, al suo debutto in regia. Ce ne parla?
«Sarò la protagonista Esther Greenwood, giovane donna che, negli anni Cinquanta, lavora in una rivista femminile di New York, ma che, dopo un esaurimento nervoso, torna a casa, a Boston. Dove tenterà il suicidio. Si tratta d'una narrazione semi-autobiografica, importante nella letteratura femminista: la Plath è nata a Boston e si è tolta la vita un mese dopo la pubblicazione del romanzo. Del film sarò anche co-produttrice».
A proposito di sorellanza: quale rapporto ha con sua sorella Elle?
«In realtà, non ci
parliamo molto. Soprattutto, non parliamo del nostro lavoro. Non so se la cosa cambierà, man mano che avanza l'età. Però, ci capiamo a fondo anche senza grandi discorsi. Il nostro essere unite viene dal fatto che siamo sorelle».
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