Marino Magliani, ligure sin nel midollo, vive in Olanda, tra boschi dove appaiono improvvisi i cervi, dune di sabbia, maree. In questo nuovo romanzo, Il cannocchiale del tenente Dumont , uscito in una veste molto elegante (L'Orma edizioni, pagg. 286, euro 20), Magliani, pur restando nel solco della prosa ligure novecentesca, con Boine per maestro, crea personaggi , di cui uno olandese, inventa trame, sposta il baricentro della sua geografia mentale.
Ne viene fuori un romanzo possente e godibile, alto e capace di comunicare immediatamente con il lettore, pieno di pagine scabre ma affascinanti, forse il migliore che Magliani abbia scritto, certo migliore di tantissimi romanzi medi italiani lodati e premiati. Siamo nel 1799, durante la campagna in Egitto di Napoleone, le truppe francesi accampate presso il lago paludoso di Maryut, vengono a conoscere l'hashish e cominciano a farne uso. Questo provoca effetti pericolosi, che arrivano sino alla diserzione. Gli Alti Comandi devono studiare e arginare il fenomeno. Tra i consumatori abituali di hashish, i tre protagonisti del libro. Il capitano Lemoine, gran parlatore e lettore di mappe, custode di un amore segreto, malato di emottisi. È suo il cannocchiale che poi userà più spesso il tenente Dumont, giovane e sensibile che si intenerirà per Angiolina, la coraggiosa, generosa infermiera di un lazzaretto.
Il terzo è un soldato semplice, il duro, spigoloso basco di nome Urruti, figlio di un assassino e in seguito assassino lui stesso. I tre vengono imbarcati su un veliero che sfuggendo alle insidie della flotta inglese arriva in Francia. Sullo stesso veliero viaggia un quarto personaggio-chiave, il dottore olandese Johan Cornelius Zomer, uomo corpulento ma non privo di una ambigua dolcezza, che ha l'incarico di spiarli, seguirli e studiare gli effetti dell'hashish. Quello che d'ora in poi sapremo dei tre militari, che intanto disertano dopo la battaglia di Marengo, è nei documenti di Zomer, in corrispondenza con un suo superiore e con un suo uomo, Pangloss, ombra misteriosa tra le pagine del libro, incaricato di condurre materialmente il pedinamento dei tre. La parte più corposa, compatta, lirica del romanzo è la fuga di Lemoine, Dumont e Urruti. Mentre tratteggia sempre più chiari i caratteri dei tre, Magliani li fa muovere dal confine montano tra Piemonte e Liguria tra boschi, dirupi, torrenti, rocce, sinché arrivano all'altezza degli ulivi, nel mare d'argento degli ulivi, prima di veder spuntare all'orizzonte il mare vero e proprio. La meta è la cittadina di Porto Maurizio: lì qualcuno sta preparando per loro un imbarco clandestino. La loro odissea di fuggitivi,tra mulattiere che «assomigliano a colonne di formiche», e petraie «premute dal vento contro l'aurora», mi hanno ricordato la forza espressiva, un po' allucinatoria di certe pagine dell'Ussaro sul tetto di Jean Giono.
Il romanzo si movimenta, si fa più romanzesco nella parte finale. E' una grande , dolorosa apologia della sconfitta e della pietà. Il lettore ne esce rinfrancato, come capita quando chiude le pagine di un libro che ha un soffio poetico, catartico.
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