La svedese spiritosa e umile diventata diva in una fontana

Da Hollywood a Cinecittà, una carriera fulminea. "La dolce vita" la consacrò. Poi, un lento declino. L'unico a non dimenticarla fu il "suo" Federico

La svedese spiritosa e umile diventata diva in una fontana

Per gli italiani era diventata subito Anitona. Con quel fisico da maggiorata, come si chiamavano, grazie a una fulminante intuizione di Vittorio De Sica, le signorine grandi forme degli anni Cinquanta, aveva spavaldamente conquistato le nostre assatanate platee (maschili). La celebre passeggiata nella Fontana di Trevi, ne La dolce vita , l'aveva poi consacrata diva anche nel resto del mondo. Una piccola parte, soltanto un'apparizione, il gattino bianco sulla lunga chioma bionda, una doccia con l'abito da sera nero sotto l'acqua scrosciante, Mastroianni che, vestito di tutto punto, la raggiunge incantato: chi allora era davanti allo schermo non se l'è più scordata. In fondo è bastata una sola scena per far salire Anita Ekberg l'Olimpo delle star.

Eppure non è stata una grande attrice. Oggi che è morta, quasi dimenticata, almeno dai più giovani, a 83 anni, in una clinica dei Castelli Romani, la sua terza e definitiva patria, dopo la natia Svezia e gli Stati Uniti, si può anche dirlo. Probabilmente lo ammetterebbe anche lei, donna tanto spiritosa quanto modesta.

Era partita da Malmoe, la diciannovenne, già esplosiva, Kerstin Anita Marianne Ekberg, con in tasca il fresco titolo di Miss Svezia. Immediato il volo verso Hollywood, dove il celebre produttore megalomane Howard Hughes le fece avere un ruolettino accanto a una popolarissima coppia di comici, Lou Abbott e Lou Costello, per noi Gianni e Pinotto, in Viaggio sul pianeta Venere . Sale il livello dei compagni di viaggio, guarda un po' il destino, ancora un tandem tutto da ridere, Dean Martin e Jerry Lewis, e si alza anche la qualità dei film, prima Artisti e modelle , poi Hollywood o morte! . Con l'ormai non più ignota svedesona premiata con un Golden Globe quale attrice emergente. In America la Ekberg girò in tutto 14 pellicole, tra le quali il fortunato kolossal in costume Guerra e pace , tratto dal romanzo di Tolstoj. Qui per la verità era oscurata dalla coetanea Audrey Hepburn, che le rendeva sì mezzo metro in circonferenza toracica, ma la sovrastava in talento.

Finalmente, nel 1958 venne la svolta italiana. Neppure poteva immaginare Anitona che il biglietto per Roma sarebbe stato di sola andata. L'esordio a Cinecittà dovette colpire anche Federico Fellini. In effetti nei panni, piuttosto succinti per la verità, dell'ardimentosa regina Zenobia, che a gambe scoperte e a seno faticosamente racchiuso nell'armatura, la Ekberg era un gran bel vedere. Così non fu traumatico il passaggio dal Guido Brignone di Nel segno di Roma al Fellini di La dolce vita . Aveva 29 anni la maestosa valchiria, quando, per usare il verbo che più le rendeva giustizia, incarnò la Sylvia per cui nella finzione perse la testa Marcello Mastroianni e nella realtà qualche milione di spettatori.

Dopo cinque trascurabili apparizioni, come nel malriuscito giallo A porte chiuse , forse il punto più basso nella carriera di Dino Risi - che però, beato lui, avrebbe avuto con la vistosa ospite un'«affettuosa amicizia», come venivano chiamati i flirt della democristianissima Italietta di allora - Fellini, al quale era rimasta comunque, se non nel cuore, almeno negli occhi, due anni dopo La dolce vita la reclutò per dirigerla in uno dei quattro episodi di Boccaccio '70 . Per la cronaca gli altri tre registi erano nientemeno De Sica, Visconti e Monicelli. E ancora più che nel suo film manifesto, Fellini, in quel beffardo episodio Le tentazioni del dottor Antonio , riuscì a farne un irripetibile simbolo della sensualità femminile. Non c'è da stupirsi quindi se Peppino De Filippo, l'intransigente moralista Antonio del titolo, fosse ossessionato dall'immagine di quella ragazza non troppo vestita, che ammiccava da una gigantografia, piazzata davanti alla sua finestra. Con maliziosa canzoncina annessa, che invitava a bere più latte.

A Hollywood Anita ritornò per una toccata e fuga nel 1963, giusto il tempo per due film, il buffo I quattro del Texas di Robert Alrich, dove ritrovò Dean Martin, con Frank Sinatra e Ursula Andress a completare il poker e il meno pretenzioso Chiamami Buana , con Bob Hope, come dire il Totò d'America. Chiusa l'ultima parentesi hollywodiana, divenne italiana a tempo pieno. Ma basta scorrere il suo pur chilometrico albo d'oro, per rendersi conto che la bella estate era ormai grigissimo autunno. Come imparai ad amare le donne (Luciano Salce, 1966), Scusi, lei è favorevole o contrario? (Alberto Sordi, sempre nel'66), Sette volte donna (Vittorio De Sica, 1967), I clowns (Federico Fellini, 1970), Intervista (ancora Fellini, 1987), Il conte Max (riecco un De Sica, Christian 1991) le poche medaglie che avrebbe potuto appuntarsi su un petto inesorabilmente appesantito.

Per finire con il sarcastico sporcaccione spagnolo Josè Luis Bigas Luna, che la volle nell'involontariamente comico drammone erotico Bambola . E sull'irriconoscibile Anitona, madre suo malgrado della goffa cacciatrice di anguille Valeria Marini, cala per sempre i sipario.

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