Ma che dispettosa Madonna. Con il suo primo singolo Give me all your luvin’ (da settimane il più trasmesso dalle radio) ha fatto finta di essersi rassegnata a Britney Spears, con tanto di ritornello fru fru, pon pon girls e vocina adolescente. E giù tutti a dire, eccola qui la regina del pop che vuol fare la ventenne a vita. E invece no, tiè. Quando fa sul serio, mescola dance, pop, techno e provocazioni come nessun altro. Il suo nuovo disco MDNA (che è solo l’acronimo di Madonna) non è l’iradiddio e senz’altro non supera Hard candy del 2008. Però è il miglior modo possibile per dire: ehi, guardate un po’ come a 53 anni posso piacere pure ai coetanei di mia figlia Lourdes (che tra l’altro è ai cori della volatile Superstar). Anzi diciamola tutta, visto che Madonna difficilmente lo farà: sono pure meglio di chi crede di avermi rubato il posto. Lady Gaga, per intenderci. In sostanza MDNA, che esce il 26 in due formati, il primo con dodici brani, il secondo doppio deluxe con quattro inediti e un remix, è un disco articolato, una sorta di confessione a cuore aperto che difatti inizia con l’atto di dolore in Girl gone wild e si ferma subito a uno dei migliori pezzi, quello che dal primo ascolto non ti molla più: Gang bang, incalzante, ipnotico, quasi dark. Poi, dal ribollire di tastiere in I’m addicted passando per il madonnismo puro di Some girls e Love spent o per i suoni asciutti di Turn up the radio, iniziano le montagne russe, gli scarti di tensione che tengono in piedi l’album dall’inizio alla fine. Il merito sarà pure dei produttori, dagli italiani Benny e Alle Benassi fino a Martin Solveig e William Orbit, quello di Ray of light, che ogni due per tre cambiano angolazione sonora, ritmo e persino atmosfera. Ma se il suo dodicesimo album è un’altalena emotiva come raramente capita di ascoltare nel pop, il vero segreto è nella storia di Madonna. Nella sua vita. Una delle poche che basta raccontarle. Ecco, MDNA è un album da film, quasi da biopic. E lasciate perdere gli altri garbugli sonori, potenti sempre, convincenti o meno importa poco. L’asse sentimentale del disco passa per la furiosa I don’t give a... nella quale dice testuale che «ho tentato di fare la brava ragazza, ho cercato di essere una moglie, mi sono sminuita, ho inghiottito la mia luce», riferendosi, ovvio, al suo matrimonio con Guy Ritchie. Poi indugia su I’m a sinner che le serve per votarsi a Maria, a Gesù Cristo e ai santi Cristoforo, Sebastiano e Antonio tutti di fila mentre garantisce, senza troppi giri di parole, di essere una peccatrice e di non pentirsene neppure. Poi basta, giusto il tempo di una riflessiva Masterpiece (che ha appena vinto un Golden Globe) e di qualche schitarrata (sua) nella Falling free che qui e là ricorda le vecchie filastrocche inglesi, e finisce il disco basic.
Quello deluxe continua con la Beautiful killer dedicata ad Alain Delon e poi con due brani che sono centrali. L’ammissione degli errori in I fucked up con tanto di «mi dispiace». E il sigillo al grande amore in Best friend, nel quale, con un guizzo tremendamente femminile, ammette di «aver perso il mio miglior amico» e che «mi piacerebbe averti di nuovo accanto a me» ma no, non sarà possibile e quindi tanti saluti. Nel frattempo, così per gradire, c’è una B-day song quasi anni Sessanta, una specie di Phil Spector riveduto e scorretto. Pezzone.
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