Thierry Metz, il centauro che sussurra

Da manovale e contadino a voce lirica che esprime dolore e stupore

A leggerla, quell'esistenza è la cuspide di un dramma. Thierry Metz ha il viso di un gigante, il corpo massiccio, irrobustito dalla pratica del sollevamento pesi; nella fotografia più nota si vede una margherita nell'occhiello della camicia. La fonte di tutto sono gli occhi: allarmati, allucinati, altri. Sembra contenere comete, Metz: nato a Parigi nel 1956, si sposa ventenne con Françoise; è muratore, contadino, poeta naturale. Sceglie di appartenere agli appartati, e con la moglie - dalla quale avrà tre figli - abita ad Agen, in Nuova Aquitania.

Scoperto da Jacques Brémond, editore artista, pubblica con lui, nel 1988, il primo libro, Sur la table inventée. È un libro arcano e concreto, dove s'intravede l'eracliteo René Char, il giallo di Van Gogh, la grazia affilata di Pascal; il pane e la stella. La raccolta vince il Prix Voronca, ma il giorno in cui Metz ottiene il riconoscimento uno dei figli, Vincent, muore sotto lo schianto di un'automobile. Ha otto anni. Per Metz è l'inizio di un calvario che passa per alcolismo, crisi nervose, reiterati ricoveri psichiatrici. L'opera di Metz, nel frattempo, è pubblicata da Gallimard: Le Journal d'un manuvre esce nel 1990, Lettres à la bien-aimée nel 1995; Jean Grosjean, straordinario solitario della poesia francese, dalla maestria australe - che attende ancora di essere degnamente tradotto in Italia - scrive che la poesia di Metz «parla a bassa voce, a chi può intendere, e dice: chiunque tu sia, ricorda che gli istanti non contengono nulla che non sia miracolo». Metz costella la vita di poesie: i libri sono breviario, rosario spinato, catalogo di chiodi e fioriture, indicibili tenerezze e canicole di tenebra. Ma la poesia non salva e l'uomo, l'ispirato, spira, sceglie la via morta, si ammazza, il 16 aprile del 1997. L'ultima raccolta, L'homme qui penche (1997), è scritta nel Centro ospedaliero di Cadillac. «Devo uccidere qualcuno dentro di me», scrive il poeta. Regola, terapia, rigore - «Assottigliarsi. Emaciare il testo il più possibile» - non hanno effetto sull'uomo che mette lumi nel male, «un poeta interrotto» dall'«opera folgorante», ha scritto Brémond.

Mascella di fuoco gettata nel corpo della posterità, Thierry Metz - ecco, l'incanto, la sovversione del suicida, il vero scandalo - risuona, con forza senza crepe proprio ora. Tradotto un po' alla macchia dalle edizioni di Via del Vento, vent'anni fa - L'uomo che pende -, Metz è diventato autore di culto. Nel 2018 le Edizioni degli Animali hanno pubblicato Sulla tavola inventata (per la cura di Riccardo Corsi), nel 2020, per la cura di Andrea Ponso, Diario di un manovale; l'anno scorso Interno Poesia ha stampato Dire tutto alle case (a cura di Mia Lecomte), quest'anno, per Il Ponte del Sale, Pasquale Di Palmo ha tradotto Lettere all'innamorata (pagg. 178, euro 22,00), altro uscirà a breve (Sur un poème de Paul Celan). Un catartico cataclisma nell'asfittico panorama editoriale italiano.

Sia lode allora a quella poesia tersa e terrea («Uscire dalle nostre parole, semplicemente, come passeri per abitare la lingua madre delle nostre mani. Mi bagno dove passi. Tu sei quella che versa acqua»), barbarica e dolcissima, orfica e frugale, che vela senza annebbiare. A me pare il sussurro di un Centauro.

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