“Titane”, il limite è superato e non giova a nessuno

L’osanna (a mezzo Palma d’Oro) del baratro, l’alba nera di un cinema che ci auguriamo nato morto, la vittoria consacrata della turpitudine multisensoriale. Può darsi sia arte, di sicuro abbrutente

“Titane”, il limite è superato e non giova a nessuno

Esce al cinema Titane, il film vincitore, a sorpresa, all’ultimo Festival di Cannes, che ha visto la giovane regista e sceneggiatrice Julia Ducournau diventare la seconda donna ad aggiudicarsi la Palma d’Oro, dopo Jane Campion nel 1993 per “Lezioni di piano”.

Una vittoria che è solo l’ultima provocazione dei nostri giorni, atta a destabilizzare probabilmente il cosiddetto ordine precostituito, incurante del dettaglio che in realtà imperi già il caos da tempo. Un film di cui si poteva fare a meno per tanti motivi. Dato per certo il politicamente corretto abbia raggiunto vette di integralismo fantascientifico, infatti, non sarà premiando il suo opposto che ripristineremo una parvenza di equilibrio.

“Titane” ha ragione di esistere, in quanto emblema dello “shock value”, ma non di essere visto. Non c’è esigua e grottesca minoranza di pubblico cui il film possa offrire giovamento e, più in generale, non c’è nemico da punire abbastanza raccomandandoglielo, dato che si tratta di un film la cui intollerabilità visiva si fa violenza.

Veniamo alla trama. Alexia (Agathe Rousselle) è una giovane che, fin dall’infanzia, a causa di un incidente, convive con una placca di titanio conficcata nel cranio. Si esibisce come ballerina in performance ad alto tasso erotico in una specie di “salone di automobili”. Non di rado è seguita da ammiratori in vena di avance più o meno pesanti. Lei risponde uccidendoli con un fermaglio a forma di grosso ago. Collezionato un omicidio di troppo, è costretta a fuggire e a fingere di essere qualcun altro. Nella fattispecie assume l'identità di un ragazzo scomparso dieci anni prima e figlio di un comandante dei pompieri (Vincent Lindon nel ruolo della carriera) che l’accoglie amorevole perché ha disperatamente bisogno di crederle. L’assassina e il salvatore di professione troveranno l’una riparo nell’altro.

Sulla carta “Titane” potrebbe anche avere un suo fascino, dopo tutto ha per protagonista la rivisitazione di due icone Anni Ottanta: un Rambo steroideo e una terminator bionda, mutante e psicopatica. Da un lato c’è un uomo maturo preda di un’idea dopata di mascolinità, dall’altro una giovane atta a spurgare come una lumaca la propria malvissuta femminilità. Eppure, detto senza falsi pudori, i vari aggettivi spesi sul film, come intenso, potente, sincero e così via, sono mere autocensure. Non esiste poetica che possa giustificare un tale delirante crescendo di aberrazioni visive che nulla denunciano o sublimano, bensì raccontano la transizione estrema di una donna che da oggetto sessuale diventa soggetto assassino e infine migra verso un’androginia disumana o post-umana.

Assemblaggio di carne, metallo e fluidi organici, la protagonista cyber-punk mortifica fino all’impossibile una gravidanza che ora c’è, ora non c’è (e non per la tenuta o meno del bendaggio contenitivo), forse come forma di resistenza alla necessità di ripartorire se stessa e nuovi legami parentali.

“Titane” è un cortocircuito estremo e irreale in cui la fascinazione per il body horror si mischia al grottesco barocco e a mutilazioni variamente assortite. Null’altro che un virtuosismo del porsi oltre il limite.

Di sicuro valicare i generi esistenti, siano essi sessuali o cinematografici, è un modo programmatico di guadagnarsi il plauso di molti, ma non basta a creare qualcosa di nuovo, compiuto e meritevole.

Auguriamoci che certi riconoscimenti ufficiali siano il climax di un momento buio e che presto torneremo a dividere i film in belli e brutti, senza confondere audacia e furberia.

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