Ora hanno i capelli lunghi. Non sono più calvi a causa della chemioterapia; non indossano più un pigiama, portano un doppiopetto blu. Ma al polso hanno sempre i loro braccialetti rossi. «Perché quello di Braccialetti rossi è stato più di un successo - osserva Tinni Andreatta -; è stato un piccolo fenomeno di costume».
Oggi punte di 7 milioni di telespettatori, una community sul web, 300mila fan sulla pagina facebook, 510mila tweet e 27 milioni di retweet. Senza contare il megaschermo montato fuori dalla conferenza stampa, per contenere le ragazzine assedianti alcuni dei suoi giovani idoli, come il Leo di Carmine Buschini o Vale, alias Brando Pacitto. Eppure, ieri in pochi avrebbero scommesso su questa serie adolescenzial-ospedaliera tratta da un format spagnolo, vera sorpresa della scorsa stagione e, da domenica 15 su Raiuno, all'attesissimo bis (mentre per il 2016 già si prepara il tris). «In pochi ci credevano perché è una storia che parla di ragazzini malati, e presenta temi come la sofferenza e la morte - osserva il regista, Giacomo Campiotti -, ma lo fa esaltando valori quali l'amicizia, il coraggio, la speranza. Cioè trasformando il dolore - i braccialetti rossi che i ragazzi hanno al polso - da esperienza negativa ad opportunità positiva». E non solo per gli spettatori. Al di là del successo tecnico («questa serie ha ringiovanito di sette anni il pubblico di Raiuno», informa la Andreatta; non a caso i suoi protagonisti saranno ospiti a Sanremo) una volta tanto ciò che ha più impressionato autori ed interpreti è stata la qualità di questo successo. «Non ho mai ricevuto lettere come le migliaia piovuteci addosso stavolta - s'inorgoglisce Campiotti -; per esempio dagli ospedali in cui, dopo Braccialetti rossi , sono cresciute le visite ai degenti, i ragazzi ricoverati sono stati più liberi di muoversi, i volontari sono aumentati. O da quei giovani che, sottoponendosi alla chemio, ci hanno scritto: ora non mi vergogno più di andare a scuola senza capelli».
Certo: c'è anche chi s'è rifiutato di seguire la toccante fiction «perché troppo triste»; «ma, particolare significativo, si tratta soprattutto di adulti - osserva il produttore, Carlo Degli Esposti -; i ragazzi arrivavano a scuola la mattina dopo pieni di voglia di parlare di argomenti come il dolore o la morte che, specialmente alla loro età, sono tabù». «E quindi, a riprenderli in mano per questa seconda serie, provavamo una sorta di sana paura - confida il regista -, quella di non essere all'altezza di tanta responsabilità». Assediati, quasi storditi, e forse impreparati a tanto clamore, gli adolescenti protagonisti. «Non mi crederete se vi dico che, al di là del successo, ciò che veramente mi ha stupito è stato imparare il valore della malattia - riflette, con sorprendente maturità, la giovane Aurora Ruffino (Cris) -. Dopo aver girato tanti ospedali autentici, e ricevuto messaggi di ragazzi malati sul serio, ho capito che la malattia deve essere accolta come parte della vita. E trasformata, se possibile, in opportunità di affinamento, di crescita». «No: dopo la notorietà il rapporto con i miei amici non è cambiato - assicura il leader del gruppo, Carmine Bruschini -, e proprio perchè li ha molto incuriositi il fatto che, nella nostra storia, a vincere non sia il più bello o il più figo; ma il più amico».
Ed è appunto sul concetto di bellezza che si sofferma Degli Esposti: «Grazie a questa serie perfino l'idea di bellezza ha avuto, in qualche modo, una trasformazione. O meglio: un approfondimento. Ieri una ragazzina mi ha spedito questa mail. Da piccola sognavo un principe azzurro su cavallo bianco. Ora mi sono innamorata di un ragazzo pelato, e a cui manca una gamba».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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