A guardarlo, Abraham Lincoln, il sedicesimo presidente degli Stati Uniti d'America, uno dei quatto il cui volto è scolpito nella roccia del Mount Rushmore, non appariva bello. Alto ben più di un metro e ottanta, aveva il volto scavato e il collo lungo. Un famoso giornalista, inviato a seguirne un contraddittorio con un avversario democratico, ne fece un ritratto al vetriolo: «una magra, ossuta figura, un po' curva, dondolante, sgraziata, vestita con nessun garbo e con un modo di gesticolare che desta il riso. Ha una faccia che inquieta. È brutto e piace. I suoi occhi grigi, fondi e acuti brillano sotto la folta, incolta capigliatura sotto la fronte vasta solcata da molte rughe. Ha la bocca larghissima, le labbra grosse, il naso lungo e forte, le braccia smisurate e alle mani enormi solo i suoi enormi piedi possono essere paragonati».
Eppure quest'uomo, destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia degli Stati Uniti che aveva il senso dell'umorismo tanto da scherzare sovente sul suo stesso aspetto fisico, dava l'impressione di essere semplice, sincero e pieno di buon senso. Due biografie, di taglio diverso e scritte in epoche diverse, lo ripropongono all'attenzione degli appassionati e dei cultori di storia americana non soltanto attraverso la ricostruzione della sua attività politica ma anche attraverso il tentativo di indagarne il carattere e approfondirne il pensiero. La prima, pubblicata in origine nel 1916 in Gran Bretagna e intitolata Lincoln (Castelvecchi, pp. 380, Euro 22), è dovuta alla penna di Godfrey Rathbone Benson, barone di Charnwood, uno scrittore e uomo politico di orientamento liberale. Si tratta di un lavoro, non a torto considerato un vero e proprio classico, accattivante nella scrittura e capace di far rivivere la forte personalità di Lincoln. Dalle pagine di Lord Charnwood, che ne seguono passo passo la vicenda biografica intrecciandola con la ricostruzione di uno dei momenti decisivi della storia americana, emerge la figura di un uomo eccezionale e pragmatico, che non amava le teorie politiche di qualunque tipo e la cui concezione del governo popolare è sintetizzata in un suo appunto scritto poco prima di essere eletto alla presidenza: «come non vorrei essere uno schiavo, così non vorrei essere un padrone. Questo esprime la mia idea della democrazia. Tutto quanto ne differisce non è democratico».
Il secondo saggio, dovuto alla penna di uno studioso di storia americana, Tiziano Bonazzi: Abraham Lincoln. Un dramma americano (Il Mulino, pagg. 312, Euro 22), ci presenta Lincoln come un uomo complicato e quasi insondabile che si trovò ad affrontare la crisi della nazione americana sfociata in una sanguinosissima guerra civile: un uomo tormentato ma convinto che l'abolizione della schiavitù costituisse il destino inevitabile degli Stati Uniti malgrado la Costituzione che ne consentiva la sopravvivenza là dov'essa era già in vigore. E, soprattutto, radicato nella «fede nell'esistenza di un popolo americano» del quale facevano parte, a pieno diritto, anche i sudisti «sviati da una cospirazione dei piantatori e dalle élite» e, quindi, non «colpevoli per la ribellione». Scritte in epoche diverse e con approcci e metodologie storiografiche diverse, le due opere concordano nella valutazione di una figura divenuta quasi leggendaria nella storia americana e, in un certo senso, espressione del mito fondante della frontiera. Nato nel Kentucky da una famiglia di origine contadina, trasferitasi prima in Indiana e poi nell'Illinois, Lincoln crebbe, infatti, alla dura scuola della frontiera. E incarnò, davvero, l'immagine del self-made man. Cambiò mestieri e professioni e, intrapresa la carriera forense, fu a Springfield un grande avvocato la cui oratoria, caratterizzata da sprazzi di ironia, attirava un grande pubblico. Divenne, così, molto popolare in Illinois, e non per motivi politici pur essendo stato deputato al Congresso per una legislatura.
Questa popolarità e la fama di essere un «non comune uomo comune» pesarono molto, nel 1860, nella sua designazione, da parte del neonato partito repubblicano, alla candidatura alla Casa Bianca. Così l'honest Abe, come veniva chiamato, divenne presidente. Il primo presidente repubblicano della storia americana. Il presidente dell'abolizione della schiavitù e della guerra civile. Ma anche il presidente della «fondazione» degli Stati Uniti moderni. La guerra civile contrappose la società del Sud, agraria, aristocratica, raffinata, immobile alla società industriale, finanziaria e urbana del Nord. Questa contrapposizione come ha ben mostrato Raimondo Luraghi nella sua splendida e insuperata Storia della guerra civile americana fu la vera causa di un conflitto, lungo e sanguinoso, che non riguardò, nella realtà, il contrasto tra schiavisti e antischiavisti. La sostanza dello scontro fu altra: il possesso dei territori dell'Ovest e il loro futuro economico e politico. La guerra civile americana fu, soprattutto, un confronto fra due modelli di società politiche e due modelli di sviluppo economico. E, al tempo stesso, tra due modelli istituzionali, quello «confederale» e quello «federale». Sotto questo profilo la «guerra di secessione» (come da molti è ancora chiamata la guerra civile americana) diventò, di fatto, la «guerra di fondazione» degli Stati Uniti moderni. E Lincoln, appunto, ne fu il campione. Era convinto lo disse in un famoso discorso a Gettysburg, nel 1863, inaugurando un sacrario militare che la guerra dovesse portare alla «rinascita della libertà» e a «un governo di popolo, dal popolo e per il popolo».
Il suo obiettivo era quello di salvaguardare l'unità politica dello Stato e quella morale di una nazione «concepita nella libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono stati creati uguali».Con la sua profonda saggezza, Lincoln non voleva, a conflitto chiuso, una «pace cartaginese»: il Sud, per lui, non era terra nemica conquistata e gli sconfitti erano fratelli traviati da recuperare. Il suo desiderio di riconciliazione degli animi e di pacificazione nazionale, si scontrò col fanatismo e gli costò la vita. Lincoln fu assassinato il 14 aprile 1865 mentre assisteva a una rappresentazione teatrale.
Cadde sotto i colpi di pistola di John Wilkes Booth, un agente provocatore dello spionaggio nordista in un attentato dai contorni oscuri, i cui mandanti e le cui vere motivazioni sono rimasti ancora avvolti nel mistero. La sua morte fu una tragedia nazionale.Ma egli entrò nel Pantheon dei presidenti americani più popolari e più amati.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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