Vanda Corti: «La mia vita con Eugenio? Un'epopea»

La vedova ricorda la delusione dell'autore del «Cavallo rosso» per la critica che non l'ha capito

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Davide Brullo

Un uomo cammina nel giardino. Sfiora le piante. Le ha innestate lui, si sincera della loro crescita. Ammira gli uccelli. Quell'uomo si chiama Eugenio Corti. «In tanti mi dicono, chissà che bella vita con uno scrittore... Mica tanto, rispondo io», e sorride, Vanda, radiosa novantenne. Adesso Vanda è sola, nella grande casa di famiglia di Eugenio Corti, a Besana in Brianza. «Era il 1947, eravamo all'Università Cattolica di Milano, io facevo il secondo anno e lui aveva 26 anni, quando ci siamo conosciuti. Eugenio era un uomo triste. Aveva passato la guerra e aveva forti dissidi con il padre, che non capiva il suo bisogno di scrivere. Gli sembrava tempo perso». Anche Vanda, umbra, figlia di un uomo «che aveva combattuto la guerra dalla parte sbagliata», non attraversava un momento facile. «Mi ero chiusa completamente. Non volevo avere a che fare con nessuno. E Eugenio si era messo in testa di trovare la donna giusta». Dai diari di Corti traluce una ricerca appassionata, quasi ossessiva di una Beatrice. «Ne aveva provate tante, di donne». Infine il matrimonio. Ad Assisi, nel maggio del 1951, celebrato da don Carlo Gnocchi.

Vanda Corti - che oggi sarà ospite al meeting di Rimini per raccontare la sua storia e quella di Eugenio - è stata al fianco di quello che è riconosciuto il più grande scrittore italiano cattolico del '900. Tra i grandi in assoluto. «Ma Eugenio non accettava nessuna intromissione, nessun consiglio. Di mattina passeggiava in giardino, poi lavorava per 2 o 3 ore al Cavallo rosso. Scriveva con una matita, così poteva cancellare le parole che non gli piacevano. Un giorno fui vinta dalla tentazione di leggere qualcosa. Beh, non erano proprio delle belle pagine, erano per lo più appunti...». Non è stato facile credere nel successo letterario, nel riscatto. Dal 1963, intanto, per fortuna, Vanda prende a insegnare in una scuola media statale. Trent'anni fa diventerà preside in un istituto privato. Corti sprofonda nel suo romanzo. Che occuperà il cuore della sua vita. Con qualche parentesi. Il lavoro per l'abrogazione della legge sul divorzio, nel 1974. Poi, quattro anni dopo, l'esperienza come direttore de L'Ordine di Como, per una manciata di mesi, dopo la morte dell'allora responsabile, Luigi Brusadelli. La realtà, improvvisamente, si fa romanzo. «In quel periodo ospitammo a casa nostra diversi dissidenti russi. Mi ricordo bene di Juri Mal'cev, che abitò per lungo tempo da noi, prima di diventare docente di Letteratura russa in Cattolica. Durante un interrogatorio i sovietici gli avevano distrutto tutti i denti. Ricordo ancora la sua dentiera di alluminio, era impressionante». Il Cavallo rosso viene pubblicato nel 1983, per le edizioni Ares; ma i momenti più difficili accadono di lì a poco. «Eugenio era sempre impegnato in conferenze, per presentare il romanzo. Per parlare con lui dovevo prendere l'appuntamento... E lui era un po' deluso. Era consapevole di aver scritto un libro importante, ma non riusciva ad ottenere quella gratificazione in cui sperava».

Il disagio si sente nella vita di coppia, priva di figli. «Fu un periodo di grande nervosismo. Vede, io non lo annoiavo con le mie malinconie. Ma un giorno, nel 1993, scrissi una poesia in cui riversavo i miei sentimenti e gliela feci trovare su un tavolo. Lui mi rispose con una lettera magnifica, in cui mi descriveva tutto il significato della nostra vita. Allora, ci siamo uniti con più forza».

Il consuntivo di una vita passata al fianco di un papabile Nobel (nel 2010 fu avanzata la candidatura al riconoscimento planetario) è positivo. «Abbiamo avuto una vita intensa. Eugenio era complicato, ma era di una generosità unica. Era un uomo curioso, di tutto e tutto entrava nella sua scrittura. Mi ha fatto vedere la profondità delle cose». Di questo abisso, ora, resta una testimonianza aurea.

Il manoscritto del Cavallo rosso: 6500 fogli compilati e corretti con minuzia. «Forse lo metto all'asta per farci un po' di soldi», scherza Vanda. «Penso di consegnarlo alla Biblioteca Ambrosiana. Per il momento, lo serbo come una cosa preziosa». Quasi un anello nuziale.

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