Che cosa rende speciale un romanzo? Che cosa fa di un testo letterario un'opera d'arte, un classico? Lo stile? Il carattere dei personaggi? La storia? La profondità delle riflessioni? Tutte queste cose insieme?
Nulla di tutto ciò, per Robert Louis Stevenson, uno che di capolavori se ne intendeva (ricordiamo L'isola del tesoro, del 1883, e Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, del 1886). Dell'autore scozzese - nato nel 1850 a Edimburgo e morto nel 1894 nell'isola di Samoa, dove si era stabilito per curare la tubercolosi - Elliot ha appena pubblicato Memorie e ritratti (pagg. 156, euro 17,50), volume nel quale Stevenson non solo parla di sé e dei suoi viaggi, della vita e della morte, ma presenta anche un vero manifesto di poetica. E dunque a rendere indimenticabile un romanzo, a farne un classico, è la sua capacità di suscitare incanto, di rappresentare scene memorabili, che facciano sognare a occhi aperti e rimangano impresse nella mente del lettore; scene e situazioni capaci di ricondurci all'infanzia, a ciò che amavamo quando eravamo ragazzini, alle «pulite avventure all'aria aperta». «Robinson Crusoe che indietreggia dinanzi alle orme dei piedi, Achille che grida contro i Troiani, Ulisse che piega il grande arco. Questi sono momenti tutti culminanti nella leggenda e ognuno di essi ci si imprime nell'occhio della mente per sempre. Possiamo dimenticare le parole, per quanto belle, possiamo dimenticare il commento dell'autore, per quanto geniale; ma queste scene che fanno epoca, che danno l'ultimo tocco di verità al racconto e colmano la nostra capacità di partecipazione al loro pathos, noi le adottiamo così completamente nell'intimo del nostro spirito, che né il tempo né il corso delle cose può cancellarne o indebolirne l'impressione». Questo è il lato plastico della letteratura: impersonare il carattere, il pensiero o l'emozione in un gesto, in un atteggiamento o in una situazione indimenticabili. «E questa è la cosa più difficile e alta che si possa fare con le parole: la cosa che, una volta compiuta, delizia tanto il ragazzino che la persona erudita, e partecipa per diritto della qualità dell'epica». Una cosa è osservare e anatomizzare con logica tagliente le complicazioni della vita e dello spirito umano, «tutt'altra cosa è dar loro corpo e sangue nella storia di Aiace o di Amleto. Nel primo caso si ha della letteratura, ma nel secondo c'è anche dell'arte».
Ecco spiegata la ragione per cui opere che non eccellono per stile o per caratterizzazione dei personaggi sono però capaci di durare nel tempo proiettandoci in avventure sognate e appagando desideri e bisogni senza nome della nostra giovinezza, come nel caso di Robinson Crusoe, o dei romanzi di Dumas («quanto ai primi capitoli del Conte di Montecristo, non credo esista un altro volume nel quale si possa respirare la stessa inconfondibile atmosfera da romanzo»), o come accade per Le mille e una notte, «nelle quali cerchereste invano un interesse morale o intellettuale; nessun volto e nessuna voce umana vi salutano tra la folla legnosa di Re e di geni, di stregoni e di mendicanti: vi troverete solo l'avventura e il divertimento nei termini più elementari». Mentre romanzi assai meglio scritti e pieni di intelligenti riflessioni, di accurate descrizioni e di personaggi finemente tratteggiati, finiscono per giacere impolverati tra gli scaffali. Non sono dunque i personaggi in sé, dei quali il lettore si innamora, con i quali si identifica, ma ciò che fanno, ciò che accade loro. È la vicenda narrata a coinvolgerci («qualche situazione che abbiamo a lungo accarezzato con l'immaginazione viene realizzata nel racconto con particolari seducenti e appropriati; allora dimentichiamo i personaggi e ci immergiamo nel racconto, facciamo un bagno di fresca esperienza»). Ci sono luoghi, osserva ancora Stevenson, che sembrano fatti apposta per fungere da teatro di eventi memorabili, per vedere realizzati i nostri sogni di giovinezza; luoghi che aspettano la loro ora, la loro leggenda («qui il destino mi aspetta», «siedo lì, in quel luogo, tra quelle mura coperte di edera, dietro a quelle imposte verdi, sulla panca di quella vecchia osteria dove qualche avventura di certo sta covando»).
Quando il lettore si identifica con il protagonista, significa che la scena descritta è una scena riuscita. Ma attenzione, perché un eccesso di dettagli ci allontana dai personaggi, ce li fa sentire distanti. Leggendo un romanzo il lettore deve non solo divertirsi, ma anche avvertire che lo scrittore si è divertito mentre lo scriveva. Quando una storia soddisfa il bisogno di avventura del lettore, allora quella storia funziona. Lo stile conta meno dell'invenzione. Quando ci si immerge in un libro, esso funziona solo se ne veniamo immediatamente rapiti. Tuttavia non basta parlare di tesori o ideare intrecci: «anche il recupero di un tesoro può essere reso in modo pesante»; «la cassa piena di cose preziose nell'Isola misteriosa di Verne ne è un esempio». Invece «la piccola storia di un marinaio naufragato, senza neanche la decima parte dello stile né la millesima parte della sapienza» di altri libri pieni di intelligenza e di bello stile «va avanti di edizione in edizione».
Stevenson riferisce un gustoso aneddoto: aveva un amico fabbro che non sapeva né leggere né scrivere. Un giorno, sentendo leggere un capitolo di Robinson Crusoe, se ne appassionò al punto da uscire trasformato da quell'esperienza, avendo scoperto che vi erano «sogni a occhi aperti che si potevano comperare col denaro e dei quali si poteva godere a piacimento». In seguito l'uomo imparò a leggere in più di una lingua e diventò un divoratore di libri.
«Gli inglesi del giorno d'oggi, invece - conclude Stevenson - serbano la loro ammirazione per il tintinnio dei cucchiaini e per gli accenti del curato», considerando «intelligente scrivere un racconto senza nessunissimo intreccio, o al massimo con un intreccio molto stupido». Sembra che parli dei giorni nostri.Forse Stevenson esagera (del resto che altro aspettarci da uno dei padri del romanzo d'avventura?). E tuttavia, come dargli completamente torto?
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