da Venezia
Il primo film italiano in concorso qui a Venezia sembra rimanere quell'ufo che ha spiazzato molti quando il direttore Alberto Barbera, annunciando il programma di quest'anno, ne ha rivelato il titolo, Spira Mirabilis di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, accanto a Piuma di Roan Johnson e Questi giorni di Giuseppe Piccioni. Dovremo attendere la fine della Mostra per capire esattamente il valore di questa tripletta così eterogenea - per capirci, un documentario di ricerca, una commedia e un film on the road - ma intanto è stato svelato, con la sua proiezione, il film che in qualche modo è più in sintonia con il concetto di cinema come arte presente nel nome del festival. Non certo perché i film di Roan Johnson e Giuseppe Piccioni non siano «artistici», naturalmente, ma perché Spira Mirabilis è un'opera che necessita di una (pre)disposizione alla visione, che ha bisogno di un tempo di visione anche superiore ai suoi stessi 121 minuti. Diviso in quattro movimenti legati agli elementi fondamentali, fuoco, terra, aria, acqua, Spira Mirabilis vorrebbe essere, nelle intenzioni dei due registi milanesi, «una sinfonia visiva, un inno alla parte migliore degli uomini, un omaggio alla ricerca e alla tensione verso l'immortalità». Quattro le storie raccontate. Quella - ed è il fuoco - di una donna sacra e di un capo spirituale nella loro piccola comunità Lakota delle riserve indiane d'America. La terra, con le statue del Duomo di Milano sottoposte a una continua rigenerazione per la corrosione. L'aria, con la coppia di musicisti di origini tirolesi inventori di incredibili strumenti in metallo. L'acqua, con il simpaticissimo scienziato-cantante nipponico Shin Kubota che studia la Turritopsis, una piccolissima medusa immortale che si rigenera e che il ricercatore ha portato al Lido. Inutile dire che la cronaca ha registrato un fuggi fuggi generale durante le proiezioni per la stampa (ma chi è rimasto ha applaudito convinto) per un film che, proprio nella parte finale, chiude meravigliosamente il cerchio del suo viaggio.
Forse anche per questo uno dei due registi, Massimo D'Anolfi, durante la conferenza stampa ha avuto parole severe: «Non crediamo nel cinema per il pubblico, ci rivolgiamo più alle persone che hanno sguardo critico sulla realtà, perché le persone sono migliori e più preparate di come ci vogliono far credere, migliori anche dei giornalisti che ne scrivono». Magari la notizia dei sei minuti di applausi nel pomeriggio al termine della proiezione ufficiale gli avrebbe fatto dire cose diverse ma ormai il danno era fatto con i vertici un po' preoccupati di Rai Cinema che hanno coprodotto il film in uscita il 22 settembre distribuito da I Wonder.
Alla fine però la notizia positiva di questi primi giorni di cinema italiano a Venezia è quella di un'insieme di opere molto variegate e spesso convincenti come quelle, sparse in diverse sezioni, di Orecchie di Alessandro Aronadio prodotto proprio dalla Biennale, Le ultime cose importante esordio di Irene Dionisio alla Settimana Internazionale della critica, Il più grande sogno di Michele Vannucci in Orizzonti e Indivisibili di Edoardo De Angelis. Proprio quest'ultimo titolo, prodotto da Medusa, è stato al centro di una piccola polemica veneziana per essere stato escluso dal concorso principale e presentato «solo» alle Giornate degli autori. «Ho sempre pensato che fosse una sezione prestigiosa, siamo felici di esserci», ha sottolineato il regista. Ma la storia di Viola e Daisy, due gemelle siamesi unite all'altezza del bacino, che cantano ai matrimoni e alle feste nel napoletano rischia, positivamente, di diventare anche un caso, un po' come per Lo chiamavano Jeeg Robot.
Non solo perché lo sceneggiatore, Nicola Guaglianone, è lo stesso, ma per la forza evocativa, grazie anche alle meravigliose musiche di Enzo Avitabile, di una storia di due affascinanti ragazze (le bravissime gemelle Angela e Marianna Fontana), mostruosamente unite, che cercano di emanciparsi dalla loro situazione di fenomeni da baraccone. Chi sono i veri mostri?
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