La vittoria mutilata non era un mito ma la dura realtà che cambiò tutto

Vinta la Grande guerra, persa la pace Il Paese cadde in grave crisi d'identità

Un nodo centrale della storia italiana del Novecento è dato dal primo dopoguerra e in modo particolare dalla partecipazione dell'Italia alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, quando il nostro Paese non vide riconosciute tutte le sue richieste, un rifiuto, questo, che generò non il mito, ma direi piuttosto la dolorosa realtà della «vittoria mutilata». Ricostruisce ora questa vicenda, in tutti i suoi risvolti politici e diplomatici, Paolo Soave, Una vittoria mutilata? L'Italia e la Conferenza di Pace di Parigi, edito nella collana dritto/rovescio diretta da Eugenio Di Rienzo di Rubbettino Editore (pagg. 157, euro 14).

Come è noto, i trattati di Versailles non produssero una pace edificata su un terreno d'intesa generale accettato senza riserve dai vinti e dai vincitori. Questi ultimi, soprattutto la Francia - spinta da un sentimento di vendetta verso la Germania -, ricostruirono il nuovo ordine politico secondo i propri interessi. Così mentre nella coscienza europea tramontava definitivamente la legittimità autosufficiente del principio monarchico, con la fine dei tre assolutismi - quello russo, quello austro-ungarico e quello tedesco -, non si impose, per converso, un autentico sentimento a favore della democrazia. Per di più il nuovo principio di nazionalità, che avrebbe dovuto essere fondato sull'autodeterminazione dei popoli, risultò pervaso da una logica astratta, incapace di considerare l'effettiva situazione storica nella quale si trovano le popolazioni soggette ai nuovi mutamenti. Solo gli Stati Uniti avrebbero potuto dare stabilità e sicurezza all'assetto internazionale, ma questo non avvenne a causa dell'insorgente isolazionismo manifestatosi con la fine della presidenza Wilson. In conclusione, ciò che emerge con forza è il significato epocale del mancato incontro tra il liberalismo e la democrazia, tra la coscienza liberale e la coscienza nazionale, sullo sfondo dei rapporti ormai mondiali che condizionavano gli Stati. La «pace cartaginese» fissata dai trattati lasciò l'Europa più instabile di quanto non l'avesse trovata e, non a caso, essa sarà preparatrice di un altro conflitto molto più tragico e devastante.

È all'interno di questo quadro generale che va vista l'azione diplomatica italiana. Nel disegno degli uomini che avevano condotto il Paese alla guerra, in base al Patto di Londra, l'Italia avrebbe dovuto ottenere lo status di Grande Potenza e rafforzarsi sul piano interno scongiurando ipotesi rivoluzionarie. Tuttavia, già dall'ottobre 1918 Gabriele D'Annunzio aveva iniziato a parlare di una vittoria amputata trovando crescente seguito nell'opinione pubblica sino all'impresa di Fiume. Se in guerra i rapporti con gli alleati erano stati ambigui, cessate le ostilità la dipendenza economica del Regno d'Italia dalle maggiori Potenze risultò accentuata perché la Conferenza di pace pose precisi limiti all'influenza italiana in tutti i teatri di interesse strategico, dall'Adriatico all'Asia Minore, fino all'Africa. Così il nostro Paese, entrato in guerra senza essere una Grande Potenza e dopo aver profuso uno sforzo enorme (quasi settecentomila morti) non ebbe quei riconoscimenti cui pensava di aver diritto. In ambito continentale le condizioni di sicurezza dell'Italia migliorarono parzialmente, ma non sul confine orientale, e a mancare fu soprattutto il consolidamento della sua posizione coloniale. Mancò, cioè, quel premio che avrebbe dovuto avvicinarlo a quell'autosufficienza politico-strategica, ed economico, che caratterizzava la Francia e il Regno Unito, i quali, al contrario, non persero l'occasione per mettere le mani su tutto il Medio Oriente e le colonie tedesche.

Fra gli errori della delegazione guidata da Orlando e Sonnino, e l'ostilità degli altri vincitori, la «vittoria mutilata» distorse la percezione dei risultati di guerra, contribuendo alla definitiva delegittimazione della classe dirigente liberale.

Questa, come mette in luce Soave, dimostrò la sua incapacità di mettere a frutto la vittoria militare, lasciando all'emergente fascismo la possibilità di catturare il consenso popolare e di spostare l'evento fondativo dell'Italia, dal Risorgimento alla Grande Guerra, trasformando la domanda di democrazia in una risposta di dittatura.

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