È sorprendente la partecipazione con cui media e social hanno ripreso la notizia della morte di Mark Lanegan, cantante che sembrava incarnare una figura di rocker marginale e tenebroso, distonico persino agli ambiti marginali che lo avevano visto condividere la stagione di successo del grunge con Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e Soundgarden, allorché militava negli Screaming Trees, irrimediabilmente quinti di un quartetto irripetibile di band. Lanegan è morto a 57 anni, a Killarney, nella regione irlandese dei parchi, dove si era rifugiato a vivere, e dove stava cercando di smaltire le scorie dell'esperienza vissuta col Covid, in terapia intensiva per settimane, tra allucinazioni e visioni strangosciate, che aveva raccontato in un libro pubblicato da poco: Devil in a coma. La tossicodipendenza che ha falcidiato le star di Seattle era diventata in Lanegan una misura dell'esistenza, una dannazione di lungo periodo, così come l'alcolismo, con cui conviveva sin da ragazzo, quando sistemava i televisori portatili abbandonati nei parcheggi per ruolotte dalle parti di Ellensburg, Washington. Allora si divideva tra la scuola e una videoteca, dove lavorava la sera, e aveva cominciato a bere a dodici anni, quando un insegnante gli disse che non avrebbe superato i vent'anni.
È a Ellensburg che aveva incontrato i paffuti fratelli Van Conner, dando vita a una formazione che suonava un rock basilare e scarnificato, venato di influenze psichedeliche. Mark possedeva un timbro baritonale alla Jim Morrison, e la sua voce sembrava immancabilmente troppo grave e profonda per le canzoni che gli toccava interpretare. Era questo in fondo il segreto degli Screaming Trees, che in album come Uncle Anesthesia e Sweet Oblivion, licenziati per la SST, mescolavano un boogie tutto sommato ancorato alla tradizione degli anni Settanta (dai Cream ai Creedence), potentemente elettrificato, che Lanegan trasfigurava con il suo cantato scabro e antiretorico, caldo e distante. Se Nick Cave dopo gli esordi post-punk si è evoluto in un sofisticato, messianico crooner, Mark Lanegan sin dagli esordi grunge ha solo pensato a cantare nella maniera più credibile, senza indulgere in un ruolo, o incappare nella teatralizzazione della sua sofferenza. La distanza siderale che le sue dipendenze ponevano tra lui e la normalità faceva il resto.
La sua carriera solista è costellata di capolavori che lasciarono attoniti gli stessi fan della prima ora, dai dischi prevalentemente acustici che costituiscono un impressionante songbook di ballatone introverse e notturne, da The Winding Sheet a Whiskey for the holy ghost, sino all'album più importante della sua discografia, Scraps at Midnight, che definisce una specie di anticlimax per il genere country-rock, dall'epico al lunatico, dal dimesso al fragile, sino a quando non restano che pochi accordi di piano e chitarra, solitari e spettrali. Austero e magniloquente, il lavoro successivo, Field Songs, è un lungo blues rurale, punteggiato di suggestioni morriconiane, grandi spazi e incolmabili desolazioni.
Mark acquisì in seguito grande popolarità dalla sua collaborazione con i Queens of the Stone Age, ma in realtà il suo contributo a quel progetto è di minor peso specifico. Con grande generosità artistica si è speso in mille collaborazioni, come nei dischi di pop sinfonico con Isobel Campbell, che riecheggiano i modi di Nancy Sinatra e Lee Hazlewood. Ma il lascito più alto è il progetto Gutter Twins, condiviso con Greg Dulli.
Ne nacque Saturnalia, un album che scende a profondità inesplorate, come un film di vampiri ambientato tra l'aia di un ranch occupata da narcotrafficanti e il palco di uno striptease, tra ululati di coyote e abusi di sostanze psicotrope.
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