Nei film di guerra, si sa, i cattivi per antonomasia sono i tedeschi: loro fanno i rastrellamenti più feroci, loro torturano, loro rinchiudono ogni nemico nei Lager, dove chi cerca di adattarsi muore di stenti e chi tenta di scappare viene trucidato senza pietà, come raccontano centinaia di blockbuster, tra Grandi fughe e Liste di Schindler ; solo i giapponesi, a volte, riescono a superare in crudeltà l’alleato germanico, come si vede nel Ponte sul Fiume Kway o in Furyo.
A immortalare su pellicola gli «altri lager », o le altre, meno innocenti, evasioni, sono stati davvero in pochi: abbiamo la storia autobiografica di un atleta SS tedesco che sfugge ai britannici raccontata in Sette anni in Tibet , poi ci sono i prigionieri italiani non-cooperatori descritti in Texas ’46 , e infine qualche riferimento al trattamento spietato verso i vinti della Seconda guerra mondiale fatto da Lars Von Trier in Europa , e poco altro. La sorte degli internati nei Gulag sovietici non ha, finora, attirato particolari attenzioni di registi o sceneggiatori, forse timorosi di urtare la suscettibilità dell’URSS, come successe nel 1970 a un film tratto dal libro Una giornata di Ivan Denisovic di Solzenycin, che venne addirittura bandito dalle sale finlandesi per non compromettere le relazioni diplomatiche con l’Urss.
Le cose, però, stanno lentamente cambiando, e, a controbilanciare il quadro, dopo il film di Wayda su Katyn ecco un’altra pellicola che parte dalle sofferenze inflitte dai sovietici alla Polonia: si tratta dell’ultimo film di Peter Weir, The Way Back , programmato nelle nostre sale con il titolo originale a partire dal prossimo 29 luglio. Il celebre regista australiano, classe 1944, noto per una serie di capolavori, da Picnic ad Hanging Rock a Witness (1985), da L’attimo fuggente (1989), a Truman Show (1988) torna, molti anni dopo Gli anni spezzati (Gallipoli, 1981), al film di guerra.
The Way Back , del 2010, è dedicato a un’impresa leggendaria: la fuga da un campo di concentramento sovietico in Siberia e la successiva marcia di 4000 chilometri attraverso Mongolia, Cina e Tibet per raggiungere, sempre a piedi, l’India. Il protagonista dell’impresa è un polacco, (Jim Sturgess) accusato nel 1939 di spionaggio, sulla base di una dichiarazione estorta alla moglie dalla Ceka staliniana, e deportato in Siberia. Nel Gulag incontra un’umanità varia e violenta, impersonata da un cast d’eccezione, comprendente, tra gli altri, un inetto Mark Strong, un vecchio Ed Harris e un rozzissimo Colin Farrell, che sembra uscire dalle pagine di Educazione siberiana.
Il pugno di uomini che decide di sfidare i 5 milioni di Km quadrati di Siberia che, come ammonisce il capo degli aguzzini sovietici «è la vera prigione», è esistito realmente, e il film è dedicato alla loro memoria. Ma la storia è qualcosa di più del semplice resoconto di una grande fuga, anche se il regista descrive molto bene la spietata naturalezza della tundra e della taiga siberiana, l’arida magnificenza dei deserti mongoli e l’aspra durezza delle cime tibetane, ostacoli che per alcuni prigionieri diventano insormontabili. Nella seconda parte del film, che scorre con lenta solennità, il regista si sofferma su alcune immagini di chiara ispirazione religiosa, a partire da una ripetuta danza macabra che segna in qualche modo il cambiamento di registro verso una dimensione spirituale che ricorda le atmosfere di Picnic a Hanging Rock, qui rese esplicitamente cristiane.
La cinepresa indugia su riti e simboli come il serpente e la croce, la lavanda dei piedi e la corona di spine, che sorprendono lo spettatore, ma che verranno compiutamente svelate nelle scene finali, quando Peter Weir lascia i protagonisti e conduce il
pubblico in una veloce ma efficace carrellata storica di date che, dal 1945 al 1989, ricordano le tappe verso la libertà dell’Europa dell’Est, e indicano nel perdono la vera soluzione al mistero della sofferenza umana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.