È l'effetto sorpresa il valore aggiunto di «Prossima fermata Nirvana. Approcci al Buddismo», enciclopedica esposizione che abbraccia oltre 2500 anni di arte e cultura buddista nel mondo. Sorpresa non tanto per il numero di opere in mostra - un centinaio tra sculture, pitture, oggetti, scritti provenienti da molti Paesi -, quanto per le storie che ciascuna di loro porta con sé, storie che parlano di Oriente e di Occidente insieme.
Siamo al Museum Rietberg, a Zurigo: il contesto è importante. Sulla collina della città, immerso in un parco pubblico, il museo occupa dal 1952 l'antica Villa Wesendonck e, dal 2002, anche gli spazi espositivi sotto uno spettacolare chiosco di vetro progettato dagli architetti Alfred Grazioli e Adolf Krischanitz. È l'unico museo svizzero dedicato alle culture extra-europee, tra i più prestigiosi al mondo. Merito del barone Eduard von der Heydt, banchiere e anima tra gli anni Venti e Trenta del leggendario Monte Verità ad Ascona, la «colonia dell'utopia» amata da Jung, Kerényi ed Hermann Hesse, dove fece costruire un albergo in stile Bauhaus. Collezionista al motto di «ars una», fu uno dei maggiori cultori di arte etnica. Da questo fondo, poi accresciuto da recenti donazioni, il Rietberg attinge per le sue esposizioni temporanee e oggi uno dei primi pezzi acquistati dal barone - una statuetta di monaco cinese - è tra i più belli in mostra.
Suddivisi in otto aree tematiche che spiegano la vita del Buddha, la dottrina e la sua penetrazione in Occidente fin dall'Ottocento, troviamo mandala giapponesi del periodo Edo, statuette in oro della dinastia cinese Ming e, ancor più antiche, quelle dal Tibet, i thangka, giunti in Svizzera per mano dell'esploratore Heinrich Harrer (scrisse nel '53 Sette anni nel Tibet, da cui fu poi tratto il celebre film con Brad Pitt). Capiamo così che l'arte buddhista non esiste, ne esistono piuttosto infinite declinazioni in base alla latitudine e al periodo storico considerato, e proprio a questa sua versatilità si deve anche il successo nell'iconografia pop e psichedelica degli anni '60 e '70. L'allestimento della mostra, aperta fino al 31 marzo e realizzata con l'appoggio della Robert H.N. Ho Family Foundation, ce lo ricorda di continuo: pannelli viola, arancio, gialli, blu paiono perfetti per un'esposizione che oscilla fra Oriente e Occidente.
Emergono storie in cui arte, religione e politica si sovrappongono: sono vicende come quella, romanzesca, che riguarda delle piccole gemme per la prima volta esposte in pubblico a Zurigo e considerate sacre dai fedeli buddisti in quanto «reliquie da contatto». Erano infatti all'interno di una stupa, un tumulo sepolcrale buddhista, rinvenuta nel 1898 a Piprahwa, in India, da William Claxton Peppé: a questo inglese dal cognome bizzarro e dalla passione sfrenata per l'archeologia è toccata la scoperta casuale delle spoglie del Buddha, niente meno che la prova dell'esistenza storica del principe Siddharta. Le ceneri, distribuite all'epoca nei più importanti monasteri buddisti dell'Asia, erano mescolate a queste pietre rimaste poi a lungo nei bauli di casa Peppé: ora, complice l'intuito degli eredi, sono in tour in vari musei del mondo.
Per questa mostra ha viaggiato, e lo ha fatto per la prima volta, anche il Buddha di Peshawar. Con la sua tonnellata di peso, i gesti solenni e le vesti drappeggiate in stile ellenistico, accoglie i visitatori all'ingresso dell'esposizione di cui è, forse, l'opera più significativa. Lungo il fiume Kabul, nella valle del Pakistan, la cultura di Alessandro Magno e le dottrine del Buddha oltre duemila anni fa si tesero la mano: è evidente.
Che questi «Buddha grecizzanti» abbiano sedotto i collezionisti occidentali del '900 non sorprende, ma che quest'imponente statua, chiusa dagli anni '70 nel museo di Peshawar, sia sfuggita alla rabbia dei talebani e sia ora esposta in Europa prima di tornare, ripulita e restaurata, di nuovo a casa, è una storia che commuove.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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