RIO DE JANEIRO - È che il canottaggio è storia dello sport, è fatica, è uomini e donne che sono atleti dello spirito oltre che del corpo. È che ci sono Oxford e Cambridge e la loro regata e l'Inghilterra e Sua Maestà a spiegare perché da cinque olimpiadi cinque, alla fine, sventoli sempre lo Union Jack nel quattro senza.
È che quel giorno lontano, ad Atene, quando l'Italia del remo portò a casa il bronzo della barca più amata, Lorenzo Porzio, Dario Dentale, Luca Agamennoni e Raffaello Leonardo vennero accolti dagli sguardi mesti dei presenti, dei giornalisti depressi nel pieno della loro personalissima olimpiade a caccia di medaglie pregiate e titoli vistosi, e da quelle domande crepuscolari che tanto dolore sanno provocare negli atleti che per anni preparano un'olimpiade. È che quel giorno i ragazzoni azzurri risposero più o meno in coro "delusi noi? del bronzo? e perché mai? Abbiamo lavorato tanto per questa medaglia e non importa di che colore sia, noi siamo felici, siamo soddisfatti, è stata così dura farcela e siete voi a non capire".
Avevano ragione. Abbiamo capito ieri. Quel giorno, allo Schinias Olympic center, il quattro senza aveva conquistato - non lo si sapeva, non lo sapevano loro, non lo sapevamo noi - l'ultima medaglia olimpica della categoria. E quel giorno, invece, era giunta la seconda delle cinque vittorie di fila della barca inglese ai Giochi. Per cui trionfo annunciato il loro ieri, e trionfo concretizzato. Davanti all'Australia che gli ha comunque reso dura la vita, così come non ha mai permesso ai nostri di avvicinarsi.
Stavolta però, ad attendere Domenico Montrone, Matteo Castaldo, Matteo Lodo e Giuseppe Vicino, il capo voga che ha dettato l'impossibile rimonta sulla barca Sudafricana (fin dall'inizio e fino a quegli ultimi meravigliosi 200 metri sempre davanti a noi) stavolta non ci sono stati sguardi mesti ed espressioni attapirate e domande infelici. Invece tutti gioiosi e contenti del bronzo, benché la barca fosse quella campione del mondo neppure un anno fa in Francia. Perché l'Inghilterra era sulla luna e noi "siamo partiti con un pensiero solo: prendere questa medaglia. La volevamo a tutti i costi, ma credeteci, non ce li aspettavamo così forti".
Parola di Vicino, in fondo un po' il piccolo grande eroe del giorno, perché ha 23 anni, perché Giuseppe è il capo voga, perché ha aumentato il ritmo quando era necessario e solo nel momento giusto e, soprattutto, perché tiene famiglia. Non è padre, non è marito, è solo e semplicemente e meravigliosamente figlio. Quando dice "mio padre è disoccupato da quattro anni, mio papà è un ex portuale e non trova lavoro" già commuove. Ma è quando aggiunge che "papà non piglia soldi da tanto tempo e tutto quello che faccio io nello sport è per cercare di mantenere la famiglia, di aiutarla a tirare avanti". Giuseppe è finanziere, i soldi sono quelli che sono e "in casa siamo in sette" racconta di sé, dei suoi e di questo spaccato d'Italia che speri non esista e invece è sempre in agguato. Racconta anche del Coni che l'ha aiutato, di una lettera inviata al sindaco di Napoli, di risposte date o che si attendono.
Ed è ascoltandolo che all'improvviso si pensa ai 40mila euro e rotti di questa medaglia, al premio Coni che l'accompagna, e allora il colore di ogni medaglia scompare, allora svanisce il
bronzo che dodici anni fa era stato accolto come un fallimento, svanisce anche quello di ieri vissuto come un successo. Perché ieri la medaglia di Giuseppe e dei suoi compagni aveva i mille colori di tutto l'oro del mondo.
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