Altro che luna: molto meglio il 1969 di Rod Laver

Gracile, ma appeso ad un braccio da King Kong e sospinto da uno straripante talento genetico, Laver resta l'unico tennista al mondo ad aver vinto due Grandi Slam

L'impareggiabile Rod
L'impareggiabile Rod

Rockhampton si dipana placida lungo i bordi del fiume Fitzroy. La station wagon costeggia il corso d’acqua prima di svoltare verso l’uscita da scuola. Roy Laver spalanca lo sportello, carica il piccolo Rodney e sfreccia verso i campi da tennis che distano un paio di chilometri. Ci sono già stati la mattina presto, prima che squillasse la campanella. Ci tornano adesso, per un paio di ore abbondanti. Roy scruta nello specchietto per indovinare la sagoma del figlio appollaiato sul sedile posteriore, poi scuote il capo. È un pivello dall’aria simpatica, con una nuvola di capelli rossi in testa e il naso adunco. Ma non è questo a preoccuparlo. Rod è gracile, ossuto, minuto. Può allenarlo quanto vuole, ma difficilmente diventerà un grande tennista.

Il clangore del cancelletto metallico che introduce alla terra rossa è una melodia familiare. Inizia una sequenza di scambi. Laver senior ci sa fare, perché in famiglia sono dodici fratelli. E giocano tutti a tennis. Anche i fratelli di Rod sono nati con la racchetta in pugno. Mamma, che si chiama Melba Roffey, non fa eccezione. Sta per arrivare anche lei al campo, per dare il cambio al marito. L’intera famiglia è un consommé tennistico per nulla tiepido: una volta che ti intingi, la passione diventa corrosiva.

Il suo tennis impareggiabile

Il nido però non può bastare. Per salire di livello serve spiccare il volo. Lo sa bene Charlie Hollis, il suo primo allenatore. Lo scruta con sguardo interdetto fin dai primissimi scambi, per poi emettere una sentenza inappellabile: “Senti, ragazzo. Sei un fenomeno, ma ti manca il killer instinct. Se lo assorbi diventerai il migliore di sempre”. Perché Rod è fatto così. Anche quando potrebbe dilaniare con disarmante disinvoltura l’avversario, si concede passanti avventurosi e volèe temerarie. Gioca per irrorare il suo autocompiacimento, quando dovrebbe travestirsi da rullo compressore. Così Hollis parla ancor più chiaro: “Se vuoi che ti alleni io, da qui in avanti devi vincere ogni set con il punteggio di 6-0”.

Laver deglutisce il calice amaro e inizia a fare maledettamente sul serio. Con il suo tennis impareggiabile, poiché adesso sia fascinoso che efficace, stende ferale ogni avversario. È il viatico per diventare campione Junior in Australia e negli Usa. Rodney è sospinto da un’ulteriore arma malcelata: quel fisico che continua ad essere esile a dispetto degli allenamenti intensivi, è tutto avvitato intorno ad un braccio sinistro da King Kong. Ce n’è decisamente abbastanza per entrate nell’occhio arguto di Harry Hopman, il capitano della squadra australiana di Coppa Davis. È lui ad affibbiargli il soprannome bonario di Rocket, razzo. Nulla a che vedere con l’esplosività. Il concetto è che Laver buca l’atmosfera dei perplessi sostenuto da litri interiori di un combustibile raro: una feroce determinazione. Quando scocca il 1961 – all’età di 23 anni – è il sovrano indiscusso del circuito dilettanti.

Qui la piega degli eventi inizia a srotolarsi rapida. Un anno dopo, nel 1962, vince il suo primo Grande Slam: Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e U.S. Open, sollevati in sequenza nello stesso anno solare. È il secondo a riuscire nell’impresa dopo Don Budge, che ci era riuscito nel 1938. Nel frattempo però il conto in banca langue. In quanto depositari dei più autentici tra i comandamenti tennistici, i dilettanti giocano per alimentare lo spirito del tennis. Nessuno però alimenta il loro portafogli. Così nel ’63 giunge la decisione irrimandabile: Rod passa ai professionisti.

L’incipit è disastroso: viene preso a racchettate per un pezzo, prima di assestarsi. Quando però prende confidenza con il circuito regale, inizia a demolire tutti. La sua carriera è una calda corrente ascensionale. Nel ’65 diventa il numero uno al mondo, pigiando in bacheca una quindicina di scintillanti titoli. Quel che c’è però è sempre meno di quel che manca. Storia vecchia come il mondo. Perché, da professionista, Laver non può più provare a vincere un Grande Slam, velleità storicamente concessa ai soli dilettanti. Le tasche che si gonfiano diventano distanza con la gloria. È un dilemma che stride come uno smash recapitato in tribuna.

Per fortuna nel ’68 l’assurdo confine di distanziamento tra le due sfere, già oltrepassato nei fatti, svanisce definitivamente. Con l’inizio dell’era Open, professionisti e dilettanti si ritrovano a darsele di santa ragione. Rod si inoltra così dentro al suo anno migliore. Il 1969 coincide con la passeggiata di Neil Armstrong sulla luna? D’accordo, ma è prima di tutto il capolavoro prodigioso di Rod. Melbourne. Parigi. Londra. Quindi il capitolo conclusivo: New York. Davanti c’è Tony Roche, australiano come lui. Non può opporsi allo svolgimento della storia. Rod Laver sconfigge tutti con il suo stile elegante e aggressivo, sorseggiando gli oppositori a colpi di indifendibile rovescio.

Nessuno dopo di lui è più riuscito a vincere un Grande Slam nello stesso anno solare.

Non i Mc Enroe, i Borg, i Sampras, gli Agassi o i Federer. Lui due volte, in scioltezza. Potesse guardare di nuovo in quello specchietto, Roy Laver si sorprenderebbe terribilmente stupido e immensamente felice.

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