È diventata una squadra alla moda che piace alla gente che piace. È l'Inter di Spalletti, celebrata dal primo posto e dalla manita rifilata sulla schiena del Chievo, oltre che gratificata dall'entusiasmo dilagante del suo popolo (oltre 53 mila domenica a San Siro). E sono piovuti da un cielo color della ghisa complimenti e zucchero filato in quantità industriale. «Le basi per puntare allo scudetto ci sono tutte» è il giudizio scolpito da incallito amante di Massimo Moratti che non è insensibile nemmeno alla profezia sulla prossima sfida con la Juve («le due squadre hanno carattere e ambizione per giocarsela»). Nemmeno le improbabili lusinghe madridiste sono riusciti a distrarre Mauro Icardi, il re del gol che ha messo tutta l'Inter a dormire sonni tranquilli. «Sono primo in campionato e nella classifica del gol: cosa dovrei volere di più?», il quesito retorico rivolto a un giornale argentino. Perciò la curiosità di assistere al prossimo duello rusticano con la Juve è diventata l'ossessione di tifosi e media. Luciano Spalletti ha inaugurato la settimana del giudizio universale con quella frase a effetto che ha suonato così: «Guardiamoli in faccia per vedere chi ne ha di più». Tradotto: andiamo a prenderli a casa loro! In questo clima da abbuffata glicemica c'è stata una sola puntura velenosa, firmata da Daniele De Rossi il quale, rievocando il passato giallorosso del tecnico di Certaldo, ha ricordato che «qualche casino a Roma l'ha fatto». Ogni riferimento alla gestione del caso Totti è scontato.
Ma ad Appiano Gentile non c'è un altro Totti e nemmeno una riedizione aggiornata di Javier Zanetti col quale si scontrò il malmostoso Mazzarri. Perciò Spalletti è riuscito nell'impresa di trasformare una squadra considerata inidonea all'alta classifica in una concorrente di Napoli e Juventus. È curioso ripercorrere la strada scelta insieme con Ausilio e Sabatini, quasi per necessità, dopo il divieto del premier cinese di esportare capitali all'estero subito da Suning. E si intuisce che ha rilucidato la rosa passata, con qualche eccezione (Gabigol), e l'ha trasformata prima in un gruppo coeso, poi in una squadra organizzata. Ha avuto dal mercato pochi e sottostimati rinforzi (Vecino, Borja Valero), i più costosi (Dalbert) sono ancora ai margini ma poi ha restituito dignità a una striscia di professionisti che gli interisti volevano mettere alla porta (Santon, Nagatomo, Perisic, Brozovic). A dare ascolto ai giudizi del web neroazzurro avrebbero dovuto rottamare mezza squadra e procedere ad altri acquisti, da Nainggolan a Vidal, da Manolas a Martial. E invece niente. Addirittura rosicavano per il sontuoso mercato dei milanisti minacciando di disertare stadio e botteghino degli abbonamenti.
Spalletti ha spiazzato tutti, persino sé stesso e la sua fama di attaccabrighe con i cronisti, e si è messo come un artigiano a limare settimana dopo settimana l'impianto di squadra fino a farlo luccicare. Fino al punto di riscuotere un paragone impegnativo firmato da Simone Pepe («L'Inter di Spalletti somiglia alla prima Juve di Conte») che fu testimone di quella cavalcata.
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