«Arsene chi?». Quel signore con gli occhiali veniva da un piccolo paese alsaziano dal nome duro, Duttlenheim. Aveva vinto un campionato con il Monaco e poi aveva provato l'avventura orientale, a Nagoya era riuscito a conquistare la supercoppa giapponese. Poi l'Inghilterra, da pioniere, con strane voci a seguire. Il nome, innanzitutto, un po' Arsenio, dunque Lupin immaginario ladro gentiluomo ma anche arsenico, pericoloso, tossico. E mai con una donna appresso. Né ladro, né velenoso, né ambiguo come insinuavano i tabloid. Semmai un po' aristocratico, educato, elegante. Arsene Wenger lascia l'Arsenal ma non Londra dopo ventidue anni di onoratissima carriera.
Nella centifruga del football, che rivolta allenatori mille ogni giorno, Wenger è stata un'eccezione, difficile da accettare per i rivali invidiosi e incapaci a capire il fenomeno normale, non un ossimoro ma la regolare carriera di un professionista che ha cambiato la storia dell'Arsenal portandola da una posizione di margine a quella di sesto club più ricco del mondo e terzo di Inghilterra con 487,6 milioni di euro di fatturato. Non ha avuto bisogno degli emiri per investire stramilioni sul mercato, il club, con il consenso di monsieur Arsene, ha preferito investire negli immobili, un nuovo stadio, una struttura imprenditoriale solida e poi l'argenteria niente affatto modesta.
A suggerirgli di diventare allenatore fu, a Nancy, Aldo Platini, padre di Michel mai ringraziato pubblicamente. Wenger ha vinto tre campionati in Inghilterra, sette coppe nazionali, sette community shield, nella stagione 2003/2004 ha conquistato il titolo inglese senza una sola sconfitta. Non certo facendo leggere il messale ai suoi, come usava fare agli esordi della sua missione, ma coltivando i migliori chierichetti della sua parrocchia, poi diventati cardinali. Uso una immagine religiosa perché Wenger è uomo di fede, nelle parole, nei fatti. Si è distinto, da sempre, per la buona creanza che non lo ha portato, se non rarissimamente, a baruffe con i suoi colleghi molestatori, Ferguson prima e Mourinho dopo. Ha scelto il fair play, ha scelto Londra, ha scelto di educare invece di strillare, ha imposto il suo credo, da lui ritenuto il migliore.
Avrebbe potuto vincere di più ma questa fetta di storia inglese gli appartiene per aver guidato e modellato calciatori illustri, da Henry (il suo profeta) a Vieira e poi Petit, Anelka, Pires, Wiltord, Nasri, Flamini, Gallas, Koscielny, Giroud, gli allonsenfants che hanno offerto calcio e
nostalgia del Paese. Lo hanno definito un aristocratico, lui con furbizia ha voluto chiarire: «In Francia agli aristocratici tagliavano la testa». Arsene Wenger ha preferito fermarsi prima di presentarsi alla ghigliottina.
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