nostro inviato a Brescia
Ci vediamo nel parcheggio dell'Hotel La Vela, periferia di Brescia, zona Fiera, tre stelle con ristorante annesso. Ha tuta e scarpe da jogging, come tanti della sua età, ma non è possibile confonderlo: ha il fisico e il volto del papà. Venendomi incontro, dichiara subito la sua sorpresa: «Non credo di meritare tutta questa attenzione. Non sono un eroe, non faccio niente di speciale. Mi sono soltanto rimboccato le maniche e mi sono rimesso in gioco. Per mantenere la mia bambina, farei qualunque cosa». Al momento, fa il portiere di notte nell'albergo alle sue spalle: qualche volta al mese, tappando i buchi, sperando che col tempo l'impegno diventi più corposo.
Riservato alla ministra Fornero, che li considera choosy-boys (giovani schizzinosi, ma che noia con questo inglese a tutti i costi), o al suo avo Padoa-Schioppa, che li considerava bamboccioni (bamboccions?). Mattia ha 29 anni, da cinque sta con Stefania, estetista, che sposerà fra tre settimane, e insieme hanno da venti mesi la piccola Carolina: proprio questa tenera creatura ha trasformato in nonno uno dei nostri ragazzi mondiali, che abbiamo lasciato l'altro ieri con la Coppa innalzata verso i cieli di Spagna, nella memorabile nottata del luglio 1982, quella del presidente e del cittì con la pipa, maestri di scopa e di cose sagge.
Mattia è un Altobelli, secondo figlio di "Spillo", il centravanti che segnando il terzo gol alla Germania lasciò la sua impronta nel cemento fresco di quell'opera d'arte. Mattia, per i costumi italiani, sarebbe dunque figlio di. Massimamente. Uno di quei giovani che secondo i raffinati ministri della Repubblica, la cui prole insegna nelle loro stesse università, fanno troppo gli schifiltosi davanti alle occasioni di lavoro. Alle volte, i luoghi comuni e i pregiudizi delle ministre chic: Mattia è figlio di, ma non è "choosy". Mattia ha cercato giorno e notte un posto di lavoro qualsiasi, battendosi contro una diffidenza da cognome («Figurati se hai bisogno»), fino a trovare questo primo impiego part-time. Soltanto a giugno era anch'egli un calciatore professionista, da pochi giorni è un giovane italiano che lotta contro la precarietà e la disoccupazione. Altro che choosy, ministra Fornero. «Certo - spiega - mi sono sentito anch'io un po' irriso dalle parole della ministra. Io volerei anche in fabbrica. Ma tanti ragazzi non la pensano così e scantonano subito. Coi tempi che corrono, non ce lo possiamo più permettere».
Dieci anni fa, Mattia era un Altobelli molto promettente nel vivaio dell'Inter: un estroso tutto tecnica, ma molto deficitario - come dice sempre papà - di grinta. «Ero interista a 17 anni, ma non per mio padre, sia chiaro: dovetti superare tre tornei di prova. Ci rimasi tre anni, fino a una convocazione per la partita di Champions col Bayer Leverkusen, allenatore Cuper. Ero anche nella nazionale Under 20. Poi cominciai la solita trafila dei prestiti
». Un viaggio infinito nelle illusioni e nelle tramvate del nostro calcio. Prima Spezia, poi Spal, dove un giovane allenatore lo trasforma da seconda punta in centrocampista di fascia: si chiama Allegri. Quindi Avellino in B, dove un altro tecnico gli dice che non ha mai allenato un giocatore con la sua tecnica: si chiama Colomba. Poi Torres, Chiasso, Lecco, Pro Vercelli, prima della lenta discesa, Rodengo Saiano in C2, Colognese in D, Montichiari ancora C2. Tanto nomadismo, tanti stipendi saltati. Qualche volta per fallimenti societari (tre), altre per cialtroneria dei vulcanici presidenti. Fino all'ultima botta: quest'estate va a giocare in Eccellenza, a Desenzano. Ma quando, poche settimane fa, alza la voce perché i giocatori non ricevono i rimborsi spese pattuiti, la società lo caccia. Sul suo curriculum si trova impressa la simpatica nomea di «piantagrane e sfasciaspogliatoio». Mattia, senza giri di parole, c'è del vero?
Mattia non abbassa lo sguardo: «Devo fare molta autocritica. Il Mattia giovane promessa è davvero difficile: pensa sempre d'essere un fenomeno incompreso e rompe le scatole. Adesso no: da quando sono padre, vedo tutto in un altro modo. Ma vedo pure che in un certo calcio minore non è più vita. Ho la colpa di averlo detto: mi ritrovo fuori e mi dispiace, perché amo ancora giocare. Però so che posso anche farne a meno.
Questo nuovo lavoro di portiere di notte mi entusiasma. Mi piacerebbe tanto che diventasse fisso. Sono pronto a qualunque sacrificio per la mia famiglia».
E Spillo? E il grande Spillo che dice del suo portiere di notte? «Papà, il mio papà speciale, ultimamente sta a Dubai, perché Al Jazeera gli ha offerto un contratto d'opinionista tv. Legatissimo alla famiglia com'è, ci soffre. Credevo di dargli un colpo, comunicandogli la mia scelta. Invece l'ha presa bene, da vero padre: se sei contento, mi ha detto, hai fatto la cosa giusta».
Si può essere campioni in vari modi, nella stessa famiglia: segnando il terzo gol in finale e correndo verso il presidente partigiano che esulta in tribuna, ma anche prendendo atto che le illusioni ad un certo punto finiscono, e accettando di ricominciare dietro a un bancone d'albergo, qualche notte al mese, incrinando le certezze piccolo borghesi di una ministra prevenuta. Tutti gol che comunque rendono una vita degna. Con l'umiltà del lavoro, il giovane Spillo non sarà mai choosy-boy e non sarà più figlio di. E questo è il suo Mundial.
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