Da campione a campione. Da capitano a capitano. Uno scambio di ruoli, e di «fasce», avvenuto nella macchina del tempo; lì dove il passeggero può diventare guidatore, o viceversa. Proprio quanto accaduto a Bruno Conti e Francesco Totti. Simboli di Roma - e della Roma - che però hanno fatto riempire di orgoglio italico l'anima dell'intero Paese. Gli unici due giallorossi capaci di vincere uno scudetto con la loro maglia der core e conquistare un Mondiale con la casacca del cuore di noi tutti: quella azzurra della nazionale. Idoli della tifoseria, profondamente diversi nella gestione del «privato». Mai un gossip nel romanzo di Bruno, fin troppi pettegolezzi nella telenovela di Francesco. Un gioco di specchi e porte girevoli che «rischia» di finire per emozionare pure chi con l'Olimpico non ha nulla a che fare o che, addirittura, la Capitale la detesta su entrambi i fronti calcistici. Sta di fatto che l'epistolario incrociato che fa da prefazione all'autobiografia che Conti-Marazico ha scritto con Giammarco Menga, «Un gioco da ragazzi» (Rizzoli), non può lasciare indifferenti. Una mozione degli affetti che non ha nulla di sdolcinato, ma che ripercorre pagine memorabili del nostro football.
Parte Totti che si rivede bambino nella partita di addio del suo eroe. All'Olimpico è la sera del 23 maggio 1991: «Avevo 15 anni, indossavo la tuta da raccattapalle. Indimenticabile l'omaggio in ginocchio davanti alla Curca Sud e quel coro intonato da 80mila voci: Un Bruno Conti, c'è solo un Bruno Conti. Folla in delirio tra migliaia di bandiere. Tante lacrime, e il pensiero del tempo che passa. Maledetto tempo... Ma anche la magia di un destino che cominciava a bussare alla mia porta. E il sogno del pallone che sarebbe diventato realtà. Ventisei anni dopo eravamo ancora lì insieme, in quello stadio, ma a ruoli invertiti: io in campo per l'ultima volta e tu in tribuna a piangere».
Conti quei momenti di commozione per il suo «figlioccio dai capelli biondi» a cui stavano scippando il giocattolo più bello, se li ricorda bene. Certo, tanti trionfi. Le carezze di una città ai suoi «lupi». Amore e fedeltà ricambiati. Una vita da film. Ma, indelebile, il rammarico per l'ultimo tratto di carriera. Per Bruno una ferita aperta, come a sigillare il patto di sangue che lo lega a Francesco: «Io messo da parte da Ottavio Bianchi nella mia ultima stagione, tanto da giocare solo 10 minuti contro il Bordeaux in Coppa Uefa.
Tu accantonato da Luciano Spalletti e costretto a smettere nel 2017. Quante lacrime versai, Francé, durante il tuo addio al calcio».Chissà se grandi uomini di sport come Spalletti e Bianchi ammetteranno mai il loro errore. E quando mai gli ricapiterà di allenare due così?
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