«Alla nostra boxe serve il talento». Francesco Damiani lo ripete come un mantra. La nostra boxe, ovvero la boxe italiana che ha portato nemmeno un pugile ai Giochi di Tokyo, è stata onorevole, invece, nella presenza femminile. La boxe che stasera, all'Allianz di Milano, ritrova il pubblico per seguire uno dei pochi boxeur di spettacolo e prospettiva, Daniele Scardina, supermedio super tatuato, ancora imbattuto, che si giocherà il vacante titolo intercontinentale Wbo contro il tonico 32enne tedesco Jurgen Doberstein. Riunione (tv su Dazn) con altri match da titolo: Patera-Boschiero (Intercontinentale leggeri), Esposito-Cavallucci (Tricolore welter). Damiani è stato campione, ha diretto pugili di talento in nazionale ed ora, con Patrizio Oliva, tornerà nel giro azzurro per vedere di ricostruire un futuro. Dicendo Wbo, torniamo anche alla sua corona mondiale conquistata, nel 1989, fra i massimi, dopo essere spuntato dal gruppo olimpico di Los Angeles 1984, insieme a Stecca, Musone, Bruno: quando le medaglie arrivavano.
Damiani che fare per questa boxe?
«Rimboccarsi le maniche e lavorare duro. Dobbiamo scovare talenti. Servono talent scout, allenatori giovani, gente entusiasta che stia sul pezzo ad ogni ora. Come facevo io».
La boxe professionista si aggrappa a Scardina.
«Intanto, finalmente, rivediamo il pubblico. È tutt'altra musica, fa atmosfera. Il vuoto intorno al ring deprime. Scardina l'ho guidato durante le World series. Lo chiamavo Trattore: sul ring non si risparmia, grande volontà. Era un Trattore perché cominciava lento e finiva aumentando».
Dietro il Trattore che sogna in grande, c'è semina?
«Scardina fa bene a sognare in grande. Con lo volontà può arrivare dappertutto: anche a giocarsi un mondiale. Dietro? Poco. Manca il ricambio dei giovani. Dico Natalizi e Guido Vianello, il massimo che combatte negli Usa guidato da Bob Arum. Ma deve stare attento: da quelle parti ti fanno combattere contro uno che prende pugni per 7 round e all'8° magari ti stende».
E che dire dei Giochi di Tokyo? Nemmeno un azzurro sul ring...
«Non dobbiamo sorprenderci: dal 1960 a Roma, anno di grazia olimpico, la nostra boxe è andata a ondate. L'ultima: quella che ho gestito con Cammarelle, Russo, Valentino, Mangiacapre. Nel 1980 ci fu Patrizio Oliva, poi il mio gruppo di Los Angeles '84, da Seul è arrivato Parisi. Certo bisogna avere anche un po' di fortuna e trovare talenti. Guardate nel calcio: non siamo andati al mondiale. Poi è arrivato Mancini, ha puntato su giovani di qualità e, dopo 50 anni, abbiamo vinto l'europeo».
Nella boxe olimpica meglio le donne azzurre
«La strada è stata intrapresa nel 2001, ora ecco i risultati».
Scusi Damiani, ma lei che fu massimo di successo, cosa ne pensa di Anthony Joshua, gigantone inglese un po' svagato che perde e vince mondiali dei massimi a 14 milioni al colpo?
«Non è un fenomeno. Nella finale di Londra 2012, con Cammarelle, aveva perso. Incassa poco. Quando prende un cazzotto, che gli fa male, si tira indietro.
Picchia forte, però gli manca la cazzimma. Preferisco l'ucraino Usyk, che lo ha appena battuto: ha meno fisico ma è solido e bravo. Poi, se parliamo di boxe, il migliore è Tyson Fury. Però con quella testa Lo rivedremo presto sul ring».
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