Il ragazzino che svolazza per il campo è quello a cui consegnare il pallone. Dicono che così lo metti in cassaforte. Con 12 gol ha contribuito a spingere il Lanerossi Vicenza in B, ma non si accontenta. Il 5 maggio 1985 è una di quelle ricorrenze che vorresti grattare via dal calendario, se la storia accettasse di essere corretta. Roberto Baggio insegue un avversario, gesto insolito per un fantasista, scivola e cade male. La sua carriera potrebbe già srotolare i titoli di coda. Gamba letteralmente in frantumi: crociato anteriore, capsula, menisco e collaterale della gamba destra sono liquefatti. Dalla panchina avversaria, quella del Rimini, il tecnico avversario contempla la scena perplesso. Si chiama Arrigo Sacchi e ancora non lo sa, ma con quel ragazzino lì avrà ancora a che fare.
A Firenze, considerato il fatto che l’avevano acquistato soltanto due giorni prima per 2 miliardi e 800 milioni di lire, si sprecano i gesti apotropaici. La cabala però non serve a nulla. Tocca volare in Francia, dal luminare Gilles Bousquet, pregando forte che questo giovane promettente possa continuare a limonare con il pallone. L’operazione è dilaniante: trapani, buchi, tendini tagliati e 220 punti. Quando si sveglia, la gamba ha assunto le dimensioni di un braccio. Roby stritola la mano della mamma e sussurra pensieri tetri: “Se mi vuoi bene uccidimi, non ce la faccio più”. Non sa che è soltanto l’inizio di una carriera giocata prevalentemente senza ginocchia. Se gli infortuni diventano una maledizione che ci ha preso casa, le soluzioni sono due: avvizzire o risorgere, contro ogni soverchiante sfiga. Baggio vira sulla seconda. Le sue stampelle si chiamano passione, buddismo e Andreina, la compagna che infila la sua testa sotto l’incavo della sua spalla per farlo camminare quando scende dalla macchina.
Scatto in avanti. Nel 1993 Platini gli consegna il primo e unico pallone d’oro della sua storia calcistica. Di conseguenza, il Roby che si presenta ai mondiali di Usa ’94 risulta al suo apogeo. Sacchi gonfia il petto: “Baggio? Io non lo scambierei neanche con Maradona”. Pressione a quintali. Se ad Italia ’90 non era solo lui il pezzo pregiato, adesso il dribbling non può riuscire mai. Un’intera nazione poggia sulle sue spalle e le giunture, si sa, sono scricchiolanti. In amichevole, prima della partenza, rimedia una brutta botta. Fiato sospeso, frotte di scongiuri. Quando sale la scaletta dell’aereo milioni di visi contratti riacquistano linfa vitale.
Eppure il Divin Codino è appannato. Sarà l’improponibile afa statunitense causata anche da orari criminali, sarà che la tensione gli annoda le viscere, ma il suo girone è una promessa divelta nei confronti di un intero popolo incollato a roventi tubi catodici. Giants Stadium di NY, 18 giugno. L’Irlanda dovrebbe essere un boccone da deglutire in fretta. Il profeta di Fusignano gli affianca Beppe Signori. Evani però si fa male quasi subito: piani scombinati. L’Eire la sblocca e la contesa è già finita. Roby passeggia per il campo, pigolando ai suoi compagni di cercarlo. Finisce in clamorosa disfatta e di lui la stampa, mai tenera, dice che si è dissolto sul più bello.
Contro la Norvegia serve un pronto riscatto. La Dea del pallone però sbadiglia e si rigira dall’altra parte. Benarrivo canna l’offside, Pagliuca afferra il pallone con una mano fuori area e l’arbitro lo caccia. Deve uscire qualcuno per fare spazio a Marchegiani. Sacchi indica il dieci. Baggio si preme un indice sul petto e poi, in mondovisione, si lascia sfuggire l’epico “Chi? Io? Questo è matto”. Gli azzurri la spuntano con un gol dell’omonimo Dino, mentre Roby cuoce a fuoco lento in panca.
Ci attende il Messico ed è decisiva. L’Italia sobbolle e si appiglia a convinzioni di burro: “sì, quando le partite diventano importanti lui c’è”. Invece nemmeno per idea. Ci salva Massaro e passiamo, depressi e umiliati, tra le migliori terze. La telecamera indugia sull’espressione, crucciata, di un calciatore che attende di redimersi.
Si avanza, non si sa come, ma si avanza. Nuova profezia sacchiana: “Ora bisognerà pensare a difendersi meno e ad attaccare di più. Per Baggio sarà un vantaggio”. La legge dei grandi numeri lo premia, stavolta ci ha preso. I campioni d’Africa della Nigeria ci silurano con Amuneke al 25’. Nessuna reazione. Dentro Zola per imprimere una sferzata, ma il direttore di gara gli indica la doccia al 75’. A due minuti dalla fine siamo virtualmente sulla scaletta dell’aereo. Tragedia calcistica pronta a irrompere sulla scena. Però Roby, rimasto inerte fino a quel punto, ha altri piani. Mussi a rimorchio, destro piazzato e supplementari. L’Italia vibra di gioia, il suo fuoriclasse è tornato. Nell’extratime Benarrivo viene affossato in area. Sul dischetto va ancora Baggio: portiere da una parte, sfera dall’altra. Adesso è delirio.
Quarti: contro la Spagna andiamo sotto un’altra volta, ma Dino la rimette in pari. Quando sembra che l’ombra dei supplementari si addensi sopra il cielo di Boston, Roberto stappa la gioia nazionale con un altro prodigio. Ora sì. Ora è il suo mondiale. In semifinale c’è la Bulgaria dello spauracchio Hristo Stoičkov e del compianto “lupo mannaro” Trifon Ivanov. Stavolta la mettiamo in cassaforte noi, con una doppietta del Codino perennemente oscillante. Gli avversari accorciano proprio con Hristo, ma non ci riprendono più.
La finale è contro il formidabile Brasile di Romario e Bebeto, una coppia che ha fatto la fortuna dei distributori di analgesici. L’Italia para il colpo e la partita si trascina ai rigori. Come finisce lo sappiamo tutti. Testa china sotto l’opprimente cortina di Pasadena. Eppure, di quando in quando, ci svegliamo sudati. Forse è perché, in fondo, come fai a non volere bene a Roberto Baggio? Tutta quella sfortuna.
Tutta quella correttezza in campo. Tutto quel calcio pennellato che faceva bene al cuore. Così, ad occhi aperti, ci piace immaginare che quel rigore calciato in orbita abbia soltanto fatto un giro un po’ più largo, in attesa di rientrare.
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