Dalla parte di Rayyip Erdogan. Da quando la Turchia ha invaso il confine siriano per reprimere la minoranza curda, il mondo del calcio è diventato un campo minato. Di rado si assiste a una commistione tra politica e pallone. Stavolta è successo. A giurare fedeltà al sultano sono stati dei giocatori turchi che in Italia conosciamo bene per il fatto che militano nel nostro campionato: Cengiz Under, Merih Demiral, Hakan Calhanoglu.
Tutti insieme appassionatamente per appoggiare la decisione della Turchia di bombardare - e occupare con le sue truppe - la Siria settentrionale. Lo hanno fatto in modi diversi. Under pubblicando una sua foto con la maglia della Roma mentre si mette sull'attenti, Demiral diffondendo l'immagine di un soldato turco che consola un bimbo siriano, Calhanoglu partecipando al saluto militare collettivo della nazionale per festeggiare la recente vittoria in extremis contro l'Albania. Il destino di chi si oppone alla dittatura è segnato: estromissione dalla vita sociale e politica per i più fortunati, carcere e torture per tutti gli altri.
Ma c'è chi, tra gli (ex) pedatori turchi, continua a resistere. Come l'ex attaccante Hakan Sukur, 48 anni e considerato il più forte calciatore della storia del Paese. Bandiera del Galatasaray e capocannoniere della nazionale, Sukur ha giocato in Serie A prima nell'Inter e poi nel Parma. Dopo il ritiro, imitando campioni di altri Paesi come Weah e Romario, è entrato in politica con la "maglia" dell'Akp, il partito di Erdogan. Poi, nel 2013, le dimissioni, dopo la prima inchiesta contro Gulen, presunta mente del fallito colpo di Stato del 2016. L'anno prima Sukur, con le lacrime agli occhi, era fuggito negli Stati Uniti. Troppo alto il pericolo di finire in carcere a causa di un procedimento a suo carico per insulti al presidente.
Poi, dopo il presunto golpe di tre anni fa, dal caldo di Palo Alto, in California, l'ex attaccante nerazzurro si è visto emettere un ordine di arresto per presunta complicità con Gulen. Oggi Sukur, per campare, vende caffé. Ma non può dimenticare le sue origini. E infatti, poche ore dopo l'ingresso dei carri armati turchi in Turchia, si è sfogato su Twitter con un post che non ha bisogno di spiegazioni: "La mia é una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e per la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere é l'umanità". Valore che Erdogan ha sacrificato sull'altare dell'interesse politico.
Se Sukur, l'Hakan anti-Erdogan (a differenza di Calhanoglu), è fuggito dal suo Paese, il 30enne turco-tedesco Deniz Naki ha compiuto il percorso inverso, lasciando la tranquillità della Germania per avvicinarsi ai suoi fratelli curdi. Naki, infatti, è nato nel 1989 a Duren, in Renania, da una coppia di genitori turchi fuggiti qualche anno prima dal Dersim, regione a maggioranza curda al confine tra Turchia e Siria.
La carriera di Naki, seconda punta rapida di gambe e di piedi, è cominciata col piede giusto. 29 presenze e 17 gol con le nazionali giovanili tedesche, una stagione in Bundesliga e tre anni con il Sainkt Pauli, club noto per i suoi valori antirazzisti. Tutto bene, almeno fino al gesto provocatorio rivolto alla curva di casa dell'Hansa Rostock, mimando il gesto di tagliare una gola. Da quel momento Naki ha cominciato a esporsi, anche contro il regime di Erdogan. Nel 2014 passa al Genclebirligi, club di Istanbul che ha dovuto lasciare dopo essere stato picchiato e minacciato di morte per le sue uscite antigovernative. Quindi il trasferimento all'Amedspor, squadra di Diyarbakir, "capoluogo" della comunità curda. Quando comincia a capitargli di tutto.
Prima la Federcalcio turca lo squalifica per 12 giornate con l'accusa di propaganda ideologica. La sua colpa? Avere dedicato la vittoria in Coppa contro il Bursaspor "a coloro che hanno perso la vita e ai feriti durante la repressione nella nostra terra". Ovvero il Kurdistan. Condannato a 18 mesi (con la condizionale) per propaganda terroristica e scampato in Germania a un attentato sull'autostrada A4, nel gennaio 2018 viene squalificato a vita dal calcio turco per aver manifestato contro l'invasione, da parte del governo Erdogan, della città curda di Afrin. Da quel giorno Naki ha smesso di giocare, impegnandosi in prima persona per i diritti del popolo curdo.
A marzo vola a Ginevra dove organizza uno sciopero della fame per chiedere a Erdogan e ai suoi alleati islamici di ritirarsi da Afrin. Alla fine, la cittadina siriana è stata di fatto annessa alla Turchia. Ma Naki non si arrende, continuando a lottare per quella che considera la sua vera patria, il Kurdistan. Una patria senza Stato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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