La Champions League, nel bene e nel male, continua a lasciare ricordi fortissimi. Uno di questi è quello vissuto all'Olimpico il 30 maggio 1984. Un incubo lungo 40 anni che tuttora si aggiorna sui social: a riprova di come, per i tifosi della Roma, quella finale con il Liverpool rappresenti ancora una ferita aperta. La squadra di Liedholm si arrese in casa ai calci di rigore (1-1 nei tempi regolamentari con Neal e Pruzzo in rete). Dagli undici metri risultarono fatali gli errori di Conti e Graziani, ipnotizzati da Bruce David Grobbelaar, ancora oggi bersaglio del popolo romanista. «Mort...tua» fra i messaggi più «calienti» che si possono leggere sul profilo Instagram dell'ex portiere-soldato. Prima di diventare calciatore, infatti, Grobbelaar a 18 anni prestò servizio militare per l'esercito della Rhodesia nella guerra civile. «Sono stato costretto a uccidere tante persone, non posso dire quante. Posso solo pentirmi di quello che ho fatto, ma non posso cambiare il mio passato», ha confessato. A distanza di quarant'anni, ripercorriamo con lui quel match dell'Olimpico in cui, pur non parando rigori, infranse i sogni del tifo giallorosso.
Bruce, è stato il protagonista di quella notte di Coppa Campioni.
«Sono orgoglioso di aver fatto parte della storia del Liverpool. Io l'eroe della partita? Non sta a me dirlo, ma so che ho avuto il privilegio di vincere molti trofei con il Liverpool!».
Qual è il suo primo ricordo di quella serata?
«L'arrivo a Roma. Fummo accolti dai tifosi romanisti con pietre e sassi che entravano dai finestrini dell'autobus. Non c'è stato un ricordo più bello fino alla fine della partita, quando abbiamo vinto ai rigori».
Come preparò i penalty?
«Il mio allenatore Joe Fagan, pur essendo io il portiere, mi aveva selezionato come quinto rigorista! Quando mi avviai verso la porta, invece, mi disse di provare a distrarre in ogni modo gli avversari».
Allora si esibì nella sua famosa danza dello spaghetto sulla linea di porta.
«Sì, mi sentivo le gambe come due spaghetti flosci, la rete della porta mi ricordava gli spaghetti e così la morsicai. Quel balletto funzionò visto che sia Conti sia Graziani sbagliarono. Allora corsi per il campo per festeggiare. In mezzo al delirio, Joe incaricò Alan Kennedy di battere l'ultimo, quello che mi era stato assegnato. Meno male. Perché se l'avessi sbagliato...».
Ancora oggi a Roma la detestano.
«Quella sera ho fatto piangere molte persone, alcune per la gioia e altre per la sconfitta. Posso solo dire a tutti i tifosi romanisti: se il vostro portiere avesse fatto alla nostra squadra quello che io ho fatto alla Roma, non sarebbero orgogliosi di lui?».
E invece cosa si sente di dire oggi ai giocatori della Roma di quella partita?
«Che se le due squadre si ritrovassero in un ristorante a parlare di quella partita, diventerebbe una serata fantastica per tutti, per ridere, piangere e stare insieme per curare il dolore che la Roma ha provato. Sono sicuro che Pruzzo, Graziani, Conti e la squadra si divertirebbero tanto quanto noi del Liverpool!».
Un anno dopo avrebbe vissuto da vicino la tragedia dell'Heysel.
«Persero la vita tante persone in uno stadio che mai si sarebbe dovuto utilizzare. E non avremmo mai dovuto giocare. Quella sera pensai a tutto tranne che a danzare».
Dopo di lei, un altro portiere del Liverpool come Dudek stregò il Milan in una finale di Champions.
«Sì, anche lui utilizzò quelli che in inglese si chiamano mind games, ovvero dei giochi psicologici ai rigori per distrarre gli avversari».
L'anno scorso, la Roma ha perso ai rigori un'altra finale europea.
«Non ha imparato nulla dal passato! Deve imparare dalle sconfitte ai rigori per portarle nella prossima e solo qualcuno con coraggio può farlo».
Da bandiera del Liverpool, cosa pensa della fine del ciclo di Klopp?
«Uno dei più grandi manager che abbiamo avuto. Ha fatto in modo che tutti potessero sognare e se puoi sognare allora puoi realizzare ciò che sogni».
Quanto è cambiato il ruolo del portiere rispetto ai tuoi tempi?
«Solo nel gioco con i piedi. Gli altri aspetti della posizione non sono cambiati e non devono cambiare».
Le hanno affibbiato il soprannome dispregiativo di The Clown Prince.
«Mi è stato dato dai tifosi dell'Everton, non mi piace! A differenza di Jungleman, che mi diedero gli africani (un ragazzo bianco di 15 anni all'epoca)».
A proposito, lei è stato il primo africano ad aver vinto la Coppa Campioni.
«Un onore per me e per il mio Paese, lo Zimbabwe. Sia io che la nuotatrice olimpionica Kirsty Coventry abbiamo dato speranza a molti sportivi in Africa di realizzare i loro sogni».
Segue il calcio
italiano?«Seguo i campionati in cui militano giocatori dello Zimbabwe, fra cui la Serie A visto che nell'Udinese gioca Jordan Zemura. Mi resta ancora un sogno: portare la Nazionale di calcio del mio Paese in Coppa del Mondo».
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