Il giorno dopo il patteggiamento della discordia, non c'è possibilità di mettere d'accordo giustizialisti e garantisti. Questo è il vero punto fermo da cui ripartire. Non quello fissato nel comunicato ufficiale della Juventus o nelle parole facilmente travisabili del presidente federale Gravina. Il calcio ha chiuso un capitolo, ma non risolto il nodo della vicenda: la giustizia sportiva. Che da sommaria è diventata arbitraria minando la sua credibilità. La riforma ora non è più rinviabile anche se trovare un punto di sintesi tra tempi ristretti necessari allo svolgimento dei campionati e giusto processo e giusta sentenza è arduo. Quella che passerà alla storia come la stagione dei processi bianconeri è una sconfitta della giustizia sportiva, non in grado di esprimere verdetti «al di là di ogni ragionevole dubbio».
Il patteggiamento della discordia nasce da due necessità: da una parte quella del calcio italiano di mettere una pietra tombale su una vicenda che avrebbe avuto inevitabili code di ricorsi e ripercussioni su un futuro appeso alla contrattazione dei prossimi diritti televisivi; dall'altra quella della Juventus di togliersi dall'incertezza dei procedimenti sportivi per poter affrontare la sua ricostruzione. Perché di questo si tratta con la dirigenza decapitata, con la necessità di rifare praticamente da zero una squadra. Impossibile pensare che il contraccolpo economico consenta di trattenere sia i Vlahovic che i Chiesa, di rinnovare i Rabiot e di riflettere su Di Maria. E nella riflessione rientra anche il contratto di Massimiliano Allegri con l'aggravante di un bilancio in termini di risultati ugualmente fallimentare come i conti del club bianconero.
Dire che la Juve paga alla giustizia sportiva l'equivalente della tredicesima di Pogba per i gravi reati ipotizzati dalla procura di Torino (falso in bilancio etc) non è equilibrato perché non si tiene conto dei danni dall'esclusione dalla Champions, dei milioni quantificabili con i punti tolti in classifica, a spanne più o meno precise si parla di un centinaio di milioni di euro.
Probabilmente l'esperienza di Calciopoli ha indotto alla prudenza, perché cinque anni dopo quella vicenda il procuratore federale Palazzi scrisse nero su bianco che per altri club, l'Inter e il Livorno, era configurabile l'illecito sportivo. Solo Andrea Agnelli rinunciando per ora al patteggiamento non ha voluto mettere una pietra tombale, che sia per difesa della propria gestione o diverse vedute con il cugino John Elkann. L'ex presidente arroccato come nei ricorsi al Tar per Calciopoli, appunto.
Anche la necessità di non avere un'altra vicenda trascinata per anni ha oggi prodotto due sentenze difficilmente comprensibili. Da una parte la penalizzazione di dieci punti per le plusvalenze fittizie solo ipotizzate e con gli altri club assolti. Dall'altro un'ammenda appunto che appare irrisoria davanti alle ipotesi di falso in bilancio.
Ora in primo piano passa l'Uefa, che dovrebbe portare all'esclusione dalle coppe del club bianconero, ma qui la Federcalcio italiana non potrebbe assistere
in silenzio a una diversità di trattamento tra la Juventus e Barcellona, Manchester City e Psg che in fatto di guai non sono da meno. Questo sì che sarebbe imbarazzante, sicuramente più delle frasi imperfette di Gravina.
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